C’è un tempo profondo che allude, passando per l’e- quinozio settembrino, al solstizio invernale, che riproduce in sé il senso ipogeo delle cantine. Nelle città del tufo si aprono labirinti di cui non si conosce la fine, che si dice, arrivino fino al cuore caldo della terra e oltre, in mondi paralleli e inperscrutabili.
Sopra sta la terra e il paesaggio cangiante, quello che gli occhi vedono. Carico, in questi giorni, dell’oro degli acini di Vermentino e Ansonica, di Malvasia e di antichi vitigni che resistono ai secoli. I piccoli ovali trasparenti, che accolgono la vita in semi, brillano al sole meridiano proteggendosi sotto i tralci dalle guazze e dai geli improvvisi.
La notte arriva in ogni dialogo tra luce e tenebra, tra sole e luna, tra maschile e femminino e si compie il rito ciclico della vendemmia. L’uva fiisce nell botti, alcuni riprendono la pigiatura naturale a piedi nudi, e il liquido si sublima nella bevanda cara agli dei: capace di avvicinare mondi lontanissimi, di trasformare l’umore, di creare immagini surreali, di produrre allegria. In questi decenni il vino del tufo ha sofferto di negligenze e inettitudini, ma le cose stanno cambiando e gli imprenditori devono inseguire obiettivi di qualità; soltanto attraverso questo percorso il nostro bianco, riprenderà l’aura che gli spetta. Perchè il vino del tufo, il Bianco di Pitigliano, è il vino che sorseggiavano le anime scomparse nel chiuso dei sepolcri e da lì osservavano il mondo dei vivi, è il vino che avvicina sacro e profano e l’uomo a Dio, nelle antichissime religioni e nella liturgia cattolica, in un unico flusso in ascesa che aspira all’immortalità.
Buona vendemmia a tutti e buone bevute (il guidatore del gruppo si astenga) nelle feste che si sciolgono in tutti i borghi del territorio.
Mario Papalini