Alla memoria di Valeriano Contrucci, carabiniere della Stazione di Manciano nato a Bagni di Lucca, Partigiano della Banda Arancio Montauto, catturato dai tedeschi al Lasco di Manciano il 9 giugno 1944 e fucilato verosimilmente a Roccastrada l’11 giugno 1944. Il suo corpo non è stato mai ritrovato.
“Canta il merlo sulla quercia nera,
ti vo in c… padrone,
è primavera.
Canta il merlo sulla quercia monda
bracciante, stai attento,
l’inverno torna”.
Roccastrada, 24 luglio 1921: cronaca di una strage.
“Dato che l’Italia deve essere degli Italiani e non può quindi essere amministrata da individui come voi, facendomi interprete dei vostri amministrati e dei cittadini di qua vi consiglio a dare entro domenica 17 [luglio] le dimissioni da sindaco assumendovi voi, in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone. E se ricorrerete all’autorità per questo mio pio, gentile e umano consiglio, il termine vi sarà ridotto a mercoledì 13, cifra che porta fortuna[1]”. Con questa lettera, datata 6 aprile 1921, il nobile decaduto Dino Perrone Compagni, capo del fascismo toscano e già agli onori della cronaca per episodi di violenza antemarcia, minacciava Natale Bastiani, sindaco di Roccastrada, di professione falegname, che si era immediatamente rivolto al Prefetto Boragno per denunciare l’intimidazione.
A Roccastrada, capoluogo comunale con circa 2.500 abitanti, distante 36 chilometri da Grosseto, i socialisti avevano celebrato la Festa del Lavoro del 1920 con grande e inattesa soddisfazione: “Nemmeno il più ottimista di noi avrebbe osato pensare che il Primo Maggio venisse così solennemente festeggiato dalla nostra popolazione, che per lo addietro aveva sempre derisi i pochi socialisti che con il garofano rosso all’occhiello onoravano la festa del lavoro[2]”. Nel paese era presente una Lega proletaria, una di braccianti e boscaioli e una Cooperativa Agricola di “Produzione e Consumo”, di cui era presidente Dante Nativi, gestita in maniera esemplare[3]. Alle elezioni amministrative del settembre 1920 i socialisti conquistarono il municipio: con 856 voti Natale Bastiani divenne primo cittadino, sconfiggendo l’avversario Benedetto Biagioni. Così “Il Risveglio”, settimanale socialista, annunciava che: “La rocchetta repubblicana è ormai caduta ed al balcone del palazzo comunale sventola la bandiera rossa[4]”. Dopo la scissione di Livorno, i comunisti avevano ottenuto una consistente affermazione nelle elezioni dell’aprile-maggio 1921, superando i 500 voti.
Roccastrada, roccaforte dei “rossi”, si era distinta per le occupazioni delle terre e per i fatti di Civitella, incidente di cui fu ritenuto responsabile dagli avversari lo stesso Natale Bastiani. Nella seduta della Camera dei Deputati del 3 dicembre 1920 l’Onorevole Umberto Grilli, socialista, ebbe un confronto con il liberale Sarrocchi sui fatti di Civitella, quando “qualche migliaio di persone” partite da Roccastrada il 14 ottobre e aumentate di numero lungo la via, avevano raggiunto quella località. Grilli asseriva che nelle passate elezioni era stato “impedito a uno dei nostri amici, ora sindaco di Roccastrada, di pronunziare una sola parola sulla piazza di Civitella, di cui è stato poi nominato consigliere provinciale, ecco che contro di lui, contro il Bastiani e contro altri dirigenti socialisti si è scatenata all’indomani la furia più violenta dell’odio e della vendetta avversaria, denunciandoli come istigatori e duci dell’impresa. Il solito tentativo dell’ignobile speculazione politica per travolgere in una volgare accusa uomini onesti e il loro partito”. Grilli definì l’accaduto un moto spontaneo, autonomo, che “la folla operaia è andata a Civitella per suo spontaneo impulso”, semmai i dirigenti socialisti hanno svolto opera di mediazione, che non è riuscita “essendo partito un colpo di rivoltella da una delle finestre del palazzo Pierazzi, la folla stessa, non più potuta contenere dai nostri, ha invaso i palazzi. Ma i nostri (ella dovrebbe saperlo onorevole Sarrocchi), tra cui, oltre il Bastiani, erano assessori, consiglieri, dirigenti di cooperative, hanno fatto tutto il possibile per evitare […] un eccidio e ridurre al minimo possibile le conseguenze della esasperazione e del furore collettivo[5]”. Le devastazioni e i saccheggi che seguirono nelle case dell’avvocato Pierazzi, poi uno dei principali esponenti del fascismo provinciale, e di Anchise Neri, ebbero origine dalla procedura di sfratto a danno di un colono da parte di Pierazzi, anche se, tardivamente, il provvedimento era stato revocato. Quello di Civitella Marittima fu l’episodio più rilevante della breve stagione dell’occupazione delle terre in Maremma, a fronte delle molte reazioni violente delle forze dell’ordine verso i braccianti e gli occupanti, di cui si trova cospicua testimonianza nei giornali e nei documenti dell’epoca. La risposta dell’Onorevole Sarrocchi, riportata sulle pagine dell’ “Ombrone” del 20 dicembre 1920, disapprovava e condannava senza indugi quanto accaduto[6].
Le elezioni dell’aprile-maggio 1921 furono segnate, in Italia, dall’esplosione della violenza fascista. Antonio Gramsci scrisse che nei primi 200 giorni di quell’ anno erano stati assassinati 1.500 cittadini e feriti almeno 40.000. In Maremma, al contrario, non si ebbero episodi particolari, a eccezione della bastonatura all’avv. Bruchi, candidato del Fascio di difesa nazionale, durante un comizio improvvisato a Roccastrada. L’estemporaneo relatore fu interrotto da un gruppo di giovani che intonarono “Bandiera Rossa” e poi colpito alle spalle da una bastonata alla testa. L’aggressione era prontamente pubblicata dal foglio liberale “L’Ombrone”, ormai palesemente filofascista, in cui, fra l’altro, si legge che: “L’atto insano compiuto contro il nostro candidato ha provocato un certo eccitamento nei fasci di combattimento di Grosseto e Siena e si minacciava di organizzare subito una spedizione punitiva”. L’ “Ombrone” stampava anche una lettera di Bruchi, cioè la testimonianza di essere “stato aggredito alle spalle nel buio della notte da un delinquente vigliacco. […] Non chiedo rappresaglie o vendette, dimentichiamo come io ho già dimenticato. Ho la testa sanguinante, ma il cuore saldo e la fede incrollabile. Viva sempre l’Italia, viva la Patria![7]”. La stampa socialista rispose con un articolo apparso su “Il Risveglio” dal titolo “Il fattaccio di Roccastrada”. Il settimanale socialista esprimeva la sua solidarietà a “ quei compagni, che non educati alla scuola cristiana o non corrotti come noi o molti di noi da falsi concetti di educazione politica, hanno uno scatto di sdegnosa ribellione contro colui o coloro che […] personificano una lista, personificano un sistema”. L’avvocato Bruchi “è l’espressione – volente o nolente- di quel fascismo che per mezzo del famigerato Perrone ha intimato – con lettera minacciosa e diffamatoria – il sindaco di Roccastrada a dimettersi con tutti i suoi compagni del Comune. Egli è l’amico, il fiduciario di quei delinquenti che già una notte tirarono due revolverate al compagno Bastiani mentre tranquillamente e solo rincasava”. Se l’aggressione si era limitata a un colpo di bastone, questo si doveva – continuava “Il Risveglio” – all’intervento di Nativi e Bastiani, per cui “cosa pretendono i nuovi scribacchiatori dell’Ombrone! Faccia esso pure le minacce che cadono ridicolmente nel vuoto”. L’articolo si concludeva con le intimidazioni firmate da un anonimo segretario politico, rivolte questa volta al sindaco di Grosseto, ritenuto responsabile “incidente occorso nostro candidato ed eventuali incidenti altri candidati[8]”. Come risposta alla bastonatura di Bruchi le forze dell’ordine arrestarono nella notte il segretario della lega e un giovane; il giorno successivo “giunse un terrorizzante numero di carabinieri e si fecero altri arresti a suon di revolverate”. Le manette furono messe a Tagliaferri, che era appena rientrato in paese da un viaggio, si eseguirono perquisizioni e “quel che è bello si inviano gli arrestati direttamente a Grosseto. La Procura non esiste a Roccastrada? Chi è fuorilegge?[9]”.
La spedizione punitiva accennata dall’ “Ombrone” era solo rimandata, perché in quel momento la vera priorità dei fascisti era la città di Grosseto, per espugnare la quale fu pianificato un attacco in grande stile: una concentrazione di centinaia di squadristi che la invasero tra il 29 e il 30 giugno del 1921. La mattina del primo luglio a Grosseto “ebbe luogo accompagnamento funebre fascista ucciso riuscito imponente. Salma partita per Siena con regolare autorizzazione[10]”, cioè Rino Daus, fascista senese ucciso da anarchici e comunisti il 29 giugno[11], la cui salma, come riferì l’Ispettore Generale di P.S. Paolella al Ministero dell’Interno, fu fatta segno a fucilate in territorio di Siena[12] da antifascisti appostati in un bosco, poi prontamente fuggiti.
Il pomeriggio del primo luglio una squadraccia aggredì il paese di Roccastrada: gli “italianissimi”, a bordo di un’automobile e di un camion, devastarono i locali della sezione socialista e comunista, le abitazioni del segretario della sezione comunista e del primo cittadino. I danni stimati ammontarono a 15.000 lire. “L’arma dei CC. presenti non poté impedire i fatti[13]”. Si riteneva che quei fascisti fossero partiti dalla provincia di Siena, ma il prefetto senese Masino smentì, in quanto gli squadristi della città del palio attendevano “qui arrivo salma loro compagno trucidato a Grosseto”. La spedizione a Roccastrada si doveva, secondo Masino, ai fascisti di San Giovanni Valdarno “fortemente indignati notizia divulgatasi aggressione che sparò fucilate contro camion trasportante salma suddetta[14]”.
Fra il 6 e il 10 luglio occorsero alcuni episodi che tennero altissima la tensione. A Grosseto, dove si celebrava l’ottavario per la morte di Rino Daus, era intervenuto il marchese Dino Perrone Compagni con numerosi fascisti per inscenare, la sera dell’8 luglio alle ore 23,30, una manifestazione contro il Prefetto, ritenuto responsabile della mancata esposizione della bandiera al passaggio del corteo commemorativo del fascista ucciso. L’esposizione, inizialmente proibita, era stata poi consentita senza indugio. L’adunata fascista venne sciolta per l’intervento dei carabinieri inviati da Paolella. La verità è che, più che il Prefetto Boragno, il vero problema per Dino Perrone Compagni era rappresentato dall’azione dell’Ispettore Paolella. Addirittura vi era stato un incidente la sera dell’8: mentre l’Ispettore Generale di polizia stava cenando in una trattoria con funzionari e ufficiali dell’Arma, arrivò improvvisamente il marchese fascista con due scagnozzi, uno dei quali avrebbe pronunciato “parole non corrette”, tali da provocare un fermo intervento del Maggiore dei carabinieri Capocelli, della Legione di Roma. Perrone si allontanò protestando per un trattamento del genere “quando suoi superiori avevano […] varie volte fatto causa comune”. Evidentemente il “marchese nero” intendeva intimorire Paolella, ma la risposta dell’ufficiale dell’Arma ne aveva vanificato la manovra. La questione non si concluse lì, perché Perrone poco dopo telegrafò all’onorevole Bottai, informandolo della mancata esposizione della bandiera, della reazione del Maggiore dei carabinieri Capocelli e di Paolella, che a suo dire avrebbe voluto l’allontanamento dei fascisti e lo scioglimento della sezione grossetana. Alle ore 22 si era riunito il fascio grossetano, con un centinaio di partecipanti con a capo lo stesso Perrone, per votare un ordine del giorno di scioglimento della sezione, come forma di protesta per quanto accaduto. Poi si era inscenata la manifestazione contro la Prefettura, dispersa con l’arrivo dei reali carabinieri. Il mattino seguente si tenne un incontro in Prefettura fra il Prefetto Boragno, Paolella, il Maggiore dei carabinieri Capocelli e di Dino Perrone Compagni, a conclusione del quale il marchese, con un nuovo telegramma rassicurava Bottai che “sistemata vertenza fascio ricostituitosi”. Nel pomeriggio Perrone Compagni lasciava Grosseto per dirigersi a Massa Carrara, mentre restava il fiorentino pluriomicida Castellani “testé nominato segretario regionale politico fasci Maremma[15]”.
L’incontro in Prefettura non valse a frenare le violenze e le intimidazioni in provincia di Grosseto: a Cinigiano, ad esempio, la maggioranza del consiglio comunale aveva rassegnato le dimissioni a seguito di un’incursione fascista[16]. Le preoccupazioni per l’ordine pubblico in Maremma si riscontrano anche in un telegramma inviato al Prefetto e a Paolella dal Ministro Bonomi il 9 luglio, per impedire l’ingresso in provincia di squadristi forestieri – “è assolutamente indispensabile”- e per allontanare con urgenza quelli presenti[17]. Non si trattava di timori infondati: il 10 luglio 1921 ben 300 fascisti provenienti da Pisa e Livorno, probabilmente alcuni anche da Civitavecchia[18], espugnarono la cittadina di Orbetello, senza trovare alcuna opposizione nelle forze di pubblica sicurezza, che anzi disattesero gli ordini impartiti, cioè quelli di presidiare l’unica porta di accesso alla cittadina. In quegli stessi giorni il sindaco di Roccastrada Bastiani fu fermato dai fascisti a Grosseto, mentre stava parlando col Prefetto e costretto a firmare una lettera di dimissioni[19]. Anche per questo nuovo episodio i timori di un’altra aggressione a Roccastrada si fecero via via più motivati.
LA STRAGE
“Il sottoscritto chiede di interrogare il Consiglio dei Ministri, Ministro dell’Interno, sui fatti di Roccastrada, in relazione alla grave situazione della provincia di Grosseto[20]”. Così l’Onorevole Merloni alla Camera dei Deputati il 25 luglio 1921, seguito da analoghe richieste dei colleghi Bergamo, Conti e Garosi. A cosa erano dovute queste interrogazioni? A Roccastrada un’incursione fascista, avvenuta il giorno precedente, aveva causato una vera e propria strage, ben dieci persone massacrate e la devastazione di numerose abitazioni e negozi.
Una delle prime memorie sulla strage di Roccastrada, fra l’altro la prima che riporta la lettera minacciosa di Dino Perrone Compagni al sindaco Natale Bastiani, è “Fascismo: Inchiesta sulle gesta dei fascisti in Italia, libro edito da “Avanti”, pubblicato nel marzo del 1922, che comprendeva anche un repertorio fotografico originario. Ripubblicato integralmente nel 1963, sempre per le edizioni “Avanti”, il volume illustra le violenze dello squadrismo fascista ai danni di singoli o di istituzioni socialiste ed è diviso per aree geografiche. Le pagine da 330 a 339 si riferiscono a Grosseto, in particolare agli episodi del capoluogo, di Orbetello e, ovviamente, di Roccastrada. Quest’ultima strage viene definita come “la pagina più orrenda scritta dal fascismo. Contro questo paese si appuntavano da tempo le ire dell’Agraria e dei Partiti avversari, i quali avevano sperato in un primo momento che effimera sarebbe stata la conquista del Comune da parte dei socialisti. […]. Dopo la spedizione del primo luglio, per timore che i fascisti sarebbero tornati, “una parte della popolazione, giusto nei giorni precedenti la nefasta e nefanda giornata del 24 luglio, dormiva all’aperto nelle campagne vicine. Le autorità furono debitamente avvertite della minaccia che incombeva su Roccastrada. I carabinieri locali erano senza dubbio a conoscenza della imminente spedizione, Con tutto ciò nessuno volle provvedere […] . La notte del 24 luglio “due camion con 60 fascisti armati di tutto punto, e forniti di bombe a mano, materie incendiare” raggiunse il paese. Furono subito distrutte “le case e i negozi del sindaco Bastiani, degli assessori Nativi e Tagliaferri e del segretario della cooperativa Cucinelli. Bastonarono e inseguirono vari cittadini a colpi di revolver. Le persone, trovate per istrada e percosse in quella prima fase della spedizione, furono circa 200. Nelle case devastate tutto è messo in rovina a forza di mazze, di palanchini e di altri arnesi di distruzione. Nulla è risparmiato. Dal caffè Torrini si asportano bottiglie e dolci. Che sono distribuiti fra quei forsennati. I carabinieri assistono vergognosamente impassibili, e fanno causa comune con essi. Quattro ore e mezzo di barbarie. Alle 9 circa, dopo aver gozzovigliato, partono alla volta di Sassofortino […]. Ma sono trascorsi appena 10 minuti che i due camions tornano indietro con un fascista morto, lo studente Ivo Saletti di Grosseto. Si sparge fulminea la voce che un colpo tirato dalla strada abbia ucciso il fascista (le prime versioni dei giornali parlano di agguato comunista, del quale nessuno ha potuto constatare nemmeno la traccia, mentre non è escluso che il colpo sia partito, per imprudenza, dallo stesso camion). I fascisti scendono dai camion, sparano all’impazzata contro tutti coloro che incontrano, e ammazzano così dieci cittadini e ne feriscono varie decine. Ammazzano nel proprio campo il colono Bartaletti Tommaso, di anni 60, suo figlio Guido di anni 27, noti avversari socialisti, il proprietario Fabbri Antonio e Regoli Giuseppe. Ambedue simpatizzanti repubblicani e vecchi di oltre sessant’anni; poi il vetturino Minocchi Francesco, pure repubblicano e Checcucci Ezio, muratore, da pochi mesi ammogliato, ex-combattente, sergente decorato al valore. Quest’ultimo è ucciso mentre si affacciava alla porta della sua casa, alla presenza della giovane moglie, incinta. Altri morti sono: Luigi Nativi e Barni Angelo, pacifico possidente appartenente al Partito monarchico. Uccisero anche un povero storpio, certo Tacconi Vincenzo, detto Crucci, perché paralizzato alle gambe camminava con due crucce […]. I due Bartaletti, padre e figlio furono trucidati davanti alla povera madre […]. Tutti i morti vennero finiti con orrende sgozzature, e con molteplici fucilate: e i feriti lasciati languire al suolo per molte ore. Al povero Crucci, il calzolaio storpio d’ambo le gambe, che aveva il largo petto crivellato da sei rivolverate, viene tirato un altro colpo di fucile nel mezzo del petto stesso; e il tiratore esclama: “Ora la rosa è fatta!”. Vennero incendiate 15 case quasi completamente, diversi cumuli di grano e pagliai. Furono inseguiti non pochi per le campagne a colpi di moschetto dai fascisti e dai carabinieri insieme […]. Dopo altre sei ore di questo inferno, giungeva un camion di carabinieri con un capitano, al quale subito si presentò il capo della spedizione. Dino Castellani, segretario politico dei Fasci della provincia di Grosseto, per indurlo a farsi accompagnare fuori dal paese, per tema di ipotetiche imboscate. Giunti a Grosseto, sulla pubblica piazza, e davanti al feretro del fascista Saletti, fu fatto giurare ai presenti che Roccastrada doveva essere rasa al suolo…Le autorità, che avrebbero dovuto arrestare tutti i componenti della spedizione al loro ingresso a Grosseto, lasciavano, invece, che questi facessero pressoché un ingresso trionfale. […] E quando, qualche tempo dopo, in seguito alla inchiesta fatta sul luogo dall’ispettore generale, commendatore Paolella, furono spiccati mandati di cattura […] questi mandati non poterono essere eseguiti che per due impiegati, perché i colpevoli erano stati compiacentemente avvertiti da tempo[21]”. Un massacro spietato, dunque, che poté avvenire, secondo la testimonianza socialista, con la connivenza e addirittura la partecipazione di coloro che avrebbero dovuto tutelare l’ordine pubblico. Ha scritto Roberto Cantagalli: “Carabinieri non se ne videro per il paese se non verso l’una, quando finalmente giunse da Siena un camion col capitano Ziccardi e una trentina di militi. Il comandante dei fascisti gli va incontro coi suoi. Lo saluta con fare cordiale e si presenta; un affabile colloquio da capitano a capitano […][22]. Perciò i responsabili dell’Arma dei RR.CC., il Prefetto Boragno e l’Ispettore Generale di P.S. Alfredo Paolella relazionarono e indagarono sia sulla strage, sia sul comportamento della forza pubblica, giungendo, come vedremo, anche a pareri divergenti.
La Relazione del Generale Ferrè sull’eccidio di Roccastrada
Il 27 luglio 1921 il Generale di Brigata dei RR.CC. Ferrè, del IV Gruppo di Legioni dei Carabinieri Reali di Firenze, inviava al Comando Generale dell’Arma una relazione sui fatti avvenuti a Roccastrada tre giorni prima. L’ufficiale apriva il rapporto ricordando l’incontro avuto dallo squadrista Castellani con il Prefetto e il Questore, con lo scopo di ottenere il permesso, quindi anche i mezzi, per recarsi a Capalbio e Orbetello, al fine di fondare un sindacato fascista. Secondo la sua relazione, nella notte del 24 luglio i fascisti raggiunsero la sede della RAMA, fuori le mura, per impossessarsi di una macchina e di un camion. La sede era presidiata dai reali carabinieri che non consentirono il ritiro del camion, in quanto il permesso mostrato non ne faceva menzione. Verso le 1,30 si presentarono di nuovo 3 fascisti, esibendo un documento simile a quelli rilasciati dalla Questura, con bollo, ma con una firma illeggibile del Questore. Alle 2 di notte il camion uscì dal deposito della RAMA, ma non prese la direzione di Orbetello, bensì di Roccastrada, perché, secondo quanto riferì a Ferrè lo stesso Castellani, in quel paese si era tenuta una riunione per fondare un reparto di “arditi rossi”. Un altro camion, messo a disposizione da un privato di Campagnatico, attendeva quello partito da Grosseto. Gli “italianissimi”, che secondo Ferrè erano 70, raggiunsero Roccastrada alle 4,30 e scesi dai camion “fecero una passeggiata per il paese imponendo l’esposizione del tricolore alle finestre e commettendo qualche violenza privata di lieve conto verso chi credevano appartenere a partito sovversivo, affermando che volevano vendicare le vittime di Sarzana”. Così devastarono il bar dell’anarchico Bartoletti, da cui asportarono bevande alcoliche che caricarono su uno dei loro camion. Poi distrussero il negozio di orologeria del comunista Fernando Tagliaferri e gli bruciarono la mobilia di casa. I carabinieri di Roccastrada, “che con rinforzi ammontavano a 14 militi, compreso il maresciallo maggiore Tommaso Buzzelli […] cercarono di fronteggiare alla meglio la situazione, evitando più gravi danni e d’altra parte non poterono addivenire ad un’azione repressiva, dato il rilevante numero dei fascisti”, che in realtà, come vedremo, risulteranno essere molti di meno. Intorno alle 5,30 il Maresciallo telegrafò per chiedere dei rinforzi, mentre alle 7 i fascisti lasciarono il paese in direzione di Sassofortino, che intendevano raggiungere per tenere un comizio. Percorsi settecento metri, scrive il Generale, “caddero in un’imboscata tesa dai comunisti che diressero contro di loro numerosi colpi di arma da fuoco”, uno dei quali colpì mortalmente alla testa il grossetano Ivo Saletti di 23 anni. I fascisti tornarono indietro, informarono i carabinieri “che si diedero a ricercare gli autori dell’imboscata”, mentre gli “italianissimi” si divisero in squadre e “sotto l’azione dei liquori bevuti, agivano selvaggiamente addivenendo all’uccisione di parecchie persone, indipendentemente dall’avere una qualsiasi responsabilità nell’imboscata”. Nel suo rapporto Ferrè riferisce di 9 omicidi e almeno venti feriti: Antonio Fabbri, Angelo Barni, Giuseppe Regoli, Ezio Checcucci, Francesco Minoccheri, tutti simpatizzanti repubblicani; Tommaso e Guido Bartoletti, repubblicani; Vincenzo Tacconi e Luigi Nativi, comunisti. Al massacro fece seguito la devastazione: fu incendiata la casa colonica di Bartoletti e in paese quella di Dante Nativi e Vincenzo Tacconi, con il rischio che l’incendio si estendesse alle case limitrofe. Durante la strage e le devastazioni “l’opera dei carabinieri […] si svolse nel senso di frenare fin dove possibile l’insania dei fascisti, nel soccorrere i feriti, nel piantonare i morti, nel cercare di isolare e di spegnere gli incendi”. Intanto il Maresciallo di Roccastrada inviava un dispaccio telegrafico a Grosseto per riferire dell’uccisione di Saletti e del successivo eccidio, chiedendo rinforzi e l’invio dei pompieri. I contingenti richiesti, “stante che dalla questura non si aveva che in efficienza un solo camion” partirono alle 11,30 per arrivare a destinazione dopo più di un’ora: 35 carabinieri comandati dal Capitano Antonio Ziccardi e dal Funzionario di pubblica sicurezza Gaetano Nardone. Quando le forze dell’ordine raggiunsero il paese devastato, i fascisti erano in attesa all’ingresso di Roccastrada, pronti per ripartire. Non ci fu nessuno scontro: il Generale Ferrè riferì che “un’azione risoluta e a fondo contro di essi non fu ritenuta opportuna […]”. I fascisti del pluriomicida Dino Castellani ripartirono alle 15 e non vennero identificati nemmeno a Grosseto: “ciò […] non fu fatto per ragioni di opportunità”. Nardone e Ziccardi avevano comunque individuato almeno 20 fascisti.
Per quanto riguarda le responsabilità dell’Arma, Ferrè scagionò i 3 militari di guardia al garage della RAMA, perché era stato loro presentato un permesso simile a quelli rilasciati dalla Questura, nonostante fosse falso, come gli avrebbe confermato in seguito Dino Castellani. Alcune lievi pene furono inflitte a qualche ufficiale, ma scagionati, per la loro condotta, i militari di Roccastrada[23].
L’effetto immediato della strage fu la rimozione del Prefetto Antonio Boragno il 26 luglio, avvicendato da Raffaele Rocco[24]. Con la testimonianza del Prefetto Boragno, scritta a Tortona il 15 agosto del 1921, continuiamo l’indagine sui fatti di Roccastrada.
I fatti di Grosseto dal 27 giugno al 27 luglio 1921 nella relazione del Prefetto Antonio Boragno
Tramite una relazione di 19 pagine dattiloscritte, datata 15 agosto del 1921, il Prefetto Antonio Boragno volle esporre al Ministero dell’Interno “più dettagliatamente di quanto non abbia potuto fare […] sui luttuosi fatti ai quali hanno dato luogo le recenti incursioni fasciste nella città e nella provincia di Grosseto”. Secondo il Prefetto l’origine dei disordini andava ricercata nell’orientamento politico dei maremmani, in prevalenza socialisti e comunisti e che “l’impero socialista nelle Amministrazioni […] si affermò con violenza e sopraffazioni, anche gravi, che culminarono nella proditoria uccisione di un carabiniere a Follonica, avvenuta nell’ottobre del 1920, e nell’incursione […] a Civitella Marittima nel 14 ottobre 1920 […] poscia attenuò le violenze materiali”. L’incipit della relazione ci consente di inquadrare il personaggio, che sembra non tenere minimamente conto della regolare vittoria elettorale delle sinistre alle elezioni del settembre 1920 e dimentica la repressione attuata dalle forze dell’ordine verso i movimenti di occupazione delle terre da parte dei fanti-contadini. I giornali dell’epoca e i documenti d’archivio riportano varie uccisioni e ferimenti di cui furono responsabili le guardie regie e i carabinieri verso i lavoratori della terra, senza considerare le aggressioni e le minacce nei confronti degli amministratori socialisti, di cui, la più eclatante, fu quella contro il pro-sindaco socialista di Sorano Crispino Lombardi, accoltellato il 30 dicembre 1920 da 4 individui, due dei quali risulteranno squadristi di San Quirico di Sorano. Per rimanere a Grosseto capoluogo, valga come esempio l’interrogazione dell’On. Merloni al Ministro dell’Interno, per conoscere i provvedimenti adottati contro un carabiniere che uccise, la sera del primo novembre 1920, “un pacifico lavoratore, suscitando la più fiera e giustificata reazione nell’intera cittadinanza; e per sapere se alla famiglia del povero ucciso intenda corrispondere un adeguato assegno, che la sottragga alla miseria in cui l’ha improvvisamente piombata il crimine selvaggio[25]”.
Rispetto alle altre province toscane, già da tempo soggette a incursioni fasciste, quella grossetana sembrava non dover temere nulla e le sinistre, scrisse Boragno, “in qualche comizio sfidarono i fascisti a venire in questa città”. Cosa che avvenne “il 20 giugno scorso” con l’arrivo “in Grosseto da Firenze ex tenente Dino Castellani, inviato dal Direttore centrale della Toscana per iniziare una propaganda nella provincia”. Dopo aver riferito dettagliatamente le modalità della spedizione a Grosseto, Boragno rievocava il lavoro svolto per ripristinare l’ordine, in unione con l’Ispettore Generale di P.S. Paolella, inviato dal Ministero dell’Interno. La loro opera era stata interrotta dai fatti di Orbetello del 10 luglio, a causa dei quali fu rimosso il vice-commissario di P.S. e insediato un Capitano dei RR.CC. come Commissario prefettizio. “Spedizioni di poca importanza” – così le definisce il Prefetto – si ebbero a Roccastrada, il primo luglio, a Scansano, Follonica, Campagnatico e Magliano in Toscana. Altri probabili attacchi fascisti a Massa Marittima e a Scarlino furono impediti grazie all’invio di forza pubblica e per l’opera di mediazione di Boragno.
Riguardo la strage di Roccastrada “ha senza dubbio riferito diffusamente a codesto On. Ministero l’Ispettore Generala di P.S. Comm. Paolella, epperò mi limiterò a un semplice accenno dei fatti e ad alcune considerazioni sul contegno della forza pubblica in quella circostanza”. Boragno ricordava di aver inviato a Roccastrada, dopo i fatti del primo luglio, 10 militari dell’Arma, “sebbene il comandante dopo pochi giorni dall’invio opinasse per il loro rientro a Grosseto”. Il motivo della seconda sanguinosissima incursione fu dovuta al “fatto che a Roccastrada e Sassofortino si stavano prendendo accordi per la costituzione di squadre di arditi del popolo […] effettivamente in un locale delle Scuole elementari di Roccastrada ebbe luogo a tale scopo un’adunanza di socialisti e comunisti”. L’aggressione notturna al paese fu compiuta esclusivamente da squadristi maremmani guidati da Castellani che, fra l’altro, usufruirono di un camion del dott. Rossi di Campagnatico[26]. Con tale mezzo, una squadra raggiunse Grosseto la sera del 23 luglio e attese che i loro camerati prendessero l’altro camion, quello del deposito della RAMA. Il giudizio del Prefetto sui 3 militi di guardia al garage, servizio peraltro istituito da lui, è tutt’altro che lusinghiero, perché è “strano che ai detti Carabinieri non nascesse il dubbio sulla autenticità del permesso di circolazione. Doveva sembrare perlomeno strano che la Questura rilasciasse ad uno, qualificatosi per fascista, il permesso di circolare con un autocarro che l’ora stessa in cui veniva prelevato faceva presumere dovesse servire a scopo illecito. Se […] uno dei militari si fosse recato in Questura avrebbe quasi certamente avuto dal funzionario di turno l’avviso che si trattava di atto falso e la spedizione […] non avrebbe avuto luogo. Sul comportamento tenuto dai Reali Carabinieri stava indagando il Generale Ferrè, ma “ignoro a quali conclusioni sia giunto dei carabinieri in parola”. Il camion prelavato con atto falso – scrive Boragno – fu individuato dal vice Ispettore Marcantonio mentre passava per piazza Umberto I. Insospettito, egli si sarebbe recato al garage della RAMA, ma qui avrebbe avuto rassicurazioni dai militari sul permesso in possesso dei fascisti, poi presso la Questura, dove un funzionario “lo tranquillizzò e lo mandò a dormire”. Così gli “italianissimi”, che l’ex Prefetto di Grosseto ritiene in numero molto inferiore ai 70, raggiunsero Roccastrada per intimorire, bastonare e poi uccidere.
La spedizione e la strage di Roccastrada fu compiuta nel momento in cui Paolella era assente da Grosseto, perché richiamato a Roma dal 21 luglio fino alla sera del 24, quando gli fu ordinato di rientrare tempestivamente in Maremma per indagare sul massacro fascista[27].
La relazione dell’Ispettore Generale di Pubblica Sicurezza Alfredo Paolella[28] al Ministero dell’Interno del 4 agosto 1921
Il giudizio del comunista Aristeo Banchi “Ganna” sull’Ispettore Generale di P.S. Paolella non è in verità molto lusinghiero: “Peraltro egli stesso – pur denunciando le inadempienze e le complicità dei militari – non ordina di procedere all’identificazione degli squadristi colpevoli di crimini gravissimi[29]”. Quando Paolella giunse a Grosseto, la sera del 30 giugno, la città era percorsa da fascisti armati di tutto punto, con aria arrogante, di sfida. L’Ispettore ne vide “tre armati di moschetti militari che conversavano amichevolmente con una pattuglia di reali carabinieri. Assunsi subito servizio e, sia al Prefetto Comm. Boragno che al Questore Comm. Frasca, non nascosi la mia sorpresa per l’anormale stato di cose e specie per la deplorevole inattività e tolleranza della forza pubblica”. Gli fu risposto che il Comandante la Divisione dell’Arma, Maggiore Cav. Mario Deboin, aveva disposto che i suoi subordinati si comportassero così per timore che un intervento avesse provocato pericolose conseguenze. Ricevendo la stessa risposta direttamente dal Maggiore dei carabinieri, Paolella ordinò l’arresto tempestivo di tutti coloro che fossero trovati in possesso di armi o sorpresi a commettere reati. Paolella, però, appurò che in realtà nessuno era stato arrestato, soltanto che al mattino le squadre fasciste si erano allontanate dalla città e nessuna violenza o incidente era stato commesso nella notte. Alcune di queste squadre si erano spostate, come già detto, in altri centri della provincia per intimidire e distruggere.
I fatti successivi, in particolare la spedizione fascista a Orbetello, confermarono il giudizio negativo di Paolella sulla gestione dell’ordine pubblico e sulla condotta delle forze dell’ordine. Egli rilevò la pressoché totale assenza di servizio informativo, cioè i ritardi nei rapporti inviati alla Prefettura e alla Questura, che impedivano la messa in opera di misure preventive contro le incursioni degli squadristi.
Sui CC.RR. il giudizio è generalmente negativo, perché “sono noti i sentimenti, in gran parte favorevoli al fascismo, cosa che ho dovuto constatare nelle varie inchieste finora eseguite, specie in Toscana. Anche a Grosseto la loro azione fu generalmente negativa e non di rado tollerante e di adesione”. Paolella non manca di rilevare i fatti in cui fu manifesta la complicità dei reali carabinieri con gli squadristi o la simpatia dei primi per il fascismo: l’assalto alla Camera del lavoro, la devastazione del bar Greco, l’esposizione della bandiera al Municipio, la rimozione del maresciallo di Seggiano che esponeva sulla divisa il distintivo fascista. L’Ispettore informava il Ministero dell’Interno di aver conferito con il Generale dell’Arma Leopoldo Ferrè, “i cui sentimenti filofascisti sono noti, specie negli ambiti fiorentini”, il quale minimizzava o giustificava l’opera dei suoi uomini, attribuendo il loro comportamento alle violenze verbali e materiali dei sovversivi e in parte all’assenza di istruzioni da parte del Governo. “A detto comandante […] mi limitai a dire che per l’osservanza delle leggi non occorrono speciali istruzioni”. Per tali motivi l’alto funzionario di pubblica sicurezza deplorava il fatto che i suoi ordini venissero disattesi o immediatamente conosciuti dai fascisti, “ciò che provocò un ambiente ostilissimo verso di me tanto da essere fatto segno a pubblicazioni ingiuriose e per fino alla minaccia di una spedizione punitiva”.
Se le forze dell’ordine simpatizzavano per i fascisti[30], l’esercito e la magistratura non erano da meno. Paolella dovette intervenire presso il Comandante del presidio per impedire al Capitano del Distaccamento, una volta finite le esercitazioni, di far “traversare la città ai suoi uomini al canto di Giovinezza”. La Magistratura, scarsa di numero “è anch’essa propensa al fascismo, pur astenendosi da manifestazioni”. La riprova risiedeva, per Paolella, nella grande lentezza con la quale essa gestiva le istruttorie dei processi iniziati dalle indagini dell’autorità di P.S.
Questo, dunque, il quadro fornito dall’Ispettore sulla situazione che, dopo la spedizione fascista a Grosseto di fine giugno, sembrava essere ritornata alla normalità: l’ordine pubblico era ristabilito in tutta la provincia e “anche con l’appoggio morale e finanziario degli agrari, si consolidava la costituzione del fascio grossetano, che ebbe oltre 400 iscritti, fra cui varie donne”. Il fascista Castellani, che evidentemente poteva muoversi in piena libertà, attraverso la propaganda aveva promosso la costituzione dei fasci a Castiglione, Batignano, Campagnano e Follonica.
Nei primi giorni di luglio – riferisce Paolella – le incursioni dei “camionisti” ripresero a Roccastrada, il primo del mese, a Scansano il 3. In quest’ultima località una decina di fascisti aretini invasero e danneggiarono la sede del circolo comunista e il negozio di stoviglie dell’assessore comunale socialista Antonio Mesciano.
I fascisti che si recarono a Roccastrada il primo luglio imposero al sindaco Natale Bastiani “estremista di carattere intransigente” di esporre la bandiera nazionale al Municipio, ma questi ordinò di rimuoverla il giorno dopo “inopportunamente e malgrado il desiderio di molti cittadini la fece togliere dando ordine di non più rimetterla e si allontanò dalla città senza farvi ritorno”. Nel frattempo, per timore di altre spedizioni, i comunisti e i socialisti si organizzavano per formare un gruppo di Arditi del popolo. Il 23 luglio nelle scuole, situate nel palazzo comunale, si tenne una riunione alla quale “intervennero anche i repubblicani ma vennero espulsi perché ritenuti borghesi e di sentimenti temperati”. Le decisioni finali furono rimandate al giorno successivo, ma i fascisti grossetani seppero cosa si stava organizzando a Roccastrada, certamente per una soffiata. Così “sorprendendo la buona fede dei carabinieri posti a presidio del garage RAMA” i fascisti “che erano poco più di 25 unitesi agli altri 20 dei comuni di Campagnatico, Scarlino e Montepescali, giunti su camion dell’ingegnere Rossi, ricco agrario di Campagnatico, partirono per Roccastrada dove arrivarono alle 4”. Scesi dai camion, iniziarono a picchiare e ferire lievemente coloro in cui s’imbattevano, cioè i braccianti Costantino Govi, di 56 anni, Benedetto Biagioni di 40, Pietro Micheletti di 54, Arnaldo Morandi di 18, Raffaele Vorri di 18 e Castagnini Corrado di 48. Danneggiate l’orologeria e la casa del comunista Tagliaferri, fu la volta del bar dell’anarchico Bartoletti, “ove bevvero abbondantemente liquori e asportarono una damigiana di marsala”. Fieri della loro azione, presero a cantare i loro inni fascisti, imposero l’esposizione della bandiera e ripartirono per Sassofortino. A 500 metri dal paese, “da un fossato”, furono fatti segno a fucilate che colpirono e uccisero Ivo Saletti, grossetano di 23 anni. I fascisti cercarono di prendere gli autori dell’agguato, ma non trovarono nessuno e quindi ritornarono in paese dove “si abbandonarono ad atti vandalici di inaudita ferocia. Lungo la strada incendiarono pagliai e fienili e uccisero il pastore Fabbri Antonio di anni 68. Ferirono, con un colpo di rivoltella, Gori Giovanni di anni 68[31], ammazzarono nella propria abitazione Bartoletti Tommaso di anni 59 e il figlio Giulio di anni 27 che si trovava a lavorare nell’aia, Checcucci Ezio Renato, di anni 23 che era presso la giovane sposa, Regoli Giuseppe di anni 62 che trovavasi sul pianerottolo della sua abitazione e malgrado che la figliola ventiquattrenne tentasse di fargli scudo con la sua persona. Continuarono la strada e appena in paese uccisero a colpi di pistola e pugnale Barni Angelo di anni 53, Minoccheri Francesco di anni 39, Tacconi Vincenzo di anni 26 e Natali Luigi di anni 36; devastarono e incendiarono quindi la cooperativa e 5 abitazioni, in modo che ora ben 35 persone si trovano prive di tetto”.
I giornali dell’epoca riportarono i dettagli della strage, “che l’inchiesta ha accertato conformi al vero”. Delle vittime, secondo l’Ispettore, solo Vincenzo Tacconi era anarchico, due repubblicani e gli altri non erano iscritti a nessun partito. Giulio Bartoletti, assassinato subito dopo il padre, “era un reduce di guerra decorato al valor militare”, mentre Regoli, che aveva subìto percosse già prima della strage, pensò di trovare rifugio presso la figlia, ma i fascisti lo raggiunsero a colpo sicuro e lo uccisero. La figlia denunciò di aver riconosciuto fra gli assassini un maremmano al quale il padre si era rifiutato di darla in moglie. La strage, dunque, fu anche l’occasione per una spregevole vendetta privata.
Le indagini di Paolella permisero di identificare tutti i 46 fascisti[32], verso i quali la Magistratura aveva emesso, il 28 luglio, i relativi mandati di cattura. L’azione dell’Ispettore fu condotta con la massima segretezza, ma gli squadristi si erano quasi tutti nascosti “per qualche non improbabile indiscrezione”, compreso il famigerato Castellani. Così si erano potuti arrestare 4 responsabili del massacro, di cui uno ragioniere aggiunto presso la Prefettura e l’altro ragioniere presso l’Intendenza di Finanza[33].
A Roccastrada “dove più volte mi recai” le investigazioni portarono all’arresto di 7 persone, “uno dei quali confesso”, mentre altre erano state identificate.
Sulla gestione dell’ordine pubblico, specie dopo l’arrivo dei rinforzi, Paolella non nascose critiche e perplessità. Come abbiamo già scritto, prima arrivò il camion con i 35 carabinieri, comandati dal Capitano Siccardi e dal vice-commissario Nardone “ed un secondo, poco dopo, con 25 soldati”: Siccome i fascisti si trovavano ancora in paese, Paolella si chiese perché “né funzionario, né Ufficiale dell’Arma, credettero di agire temendo sia di provocare conflitto con i fascisti, sia di dar luogo alla reazione della popolazione indignata pel feroce eccidio. Tale deplorevole attività giunse al punto da non procedere nemmeno alla identificazione dei colpevoli. E qui è bene far presente che i fascisti erano complessivamente quarantasei, e non settanta come prima si disse erroneamente, mentre la forza pubblica sommava a 85 uomini[34]”.
Questa rapporto di Paolella era strettamente riservato, ma una lettera anonima ne rivelò il contenuto. La lettera fu spedita al giornale nittiano “Il Paese”, che la pubblicò dandole particolare evidenza e fu poi ripubblicata da “L’Ombrone” il 20 agosto del 1921, in tono fortemente polemico “dallo scandalizzatissimo foglio grossetano[35]”.
L’inchiesta del Generale dei Reali Carabinieri Luigi Morcaldi[36], Vice-Comandante Generale dell’Arma dei Regi Carabinieri, del 15 settembre 1921
In risposta alla nota del 12 agosto della Direzione Generale di P.S., il Comando Generale dell’Arma dei CC.RR., Ufficio 2°, inoltrava al Ministero dell’Interno un’inchiesta sui fatti di Roccastrada, relativamente al comportamento dei carabinieri, cioè alla possibilità di attuare un intervento repressivo contro gli squadristi. Nell’inchiesta venne esposta la variazione della forza pubblica avvenuta prima e dopo la strage: alle 4 di notte del 24 luglio, all’arrivo dei fascisti, erano presenti i 14 carabinieri della caserma di Roccastrada; alle 13 giunsero i 35 carabinieri con il Capitano Siccardi e il vice-commissario Nardone; alle 15 i fascisti partirono per Grosseto; alle 18 arrivò a Roccastrada il secondo rinforzo costituito da 15 carabinieri, 25 soldati di artiglieria e un subalterno dell’Arma. Secondo Morcaldi i militari che avrebbero potuto agire contro i fascisti potevano essere i 35 carabinieri giunti con Siccardi e Nardone, perché quelli della stazione del paese erano “impegnati ancora nello spegnimento degli incendi, nel piantonamento dei cadaveri e in altri servizi indispensabili in paese”. Perciò, secondo il Generale, la considerazione sulla forza disponibile “fu fatta […] nella proporzione di 49 contro una settantina, e non di 85 contro 46”. Nonostante le indagini abbiano appurato che i fascisti fossero 46, “il funzionario dirigente il servizio d’ordine pubblico in Roccastrada fece le sue valutazioni nella credenza che fossero una settantina”. Una cifra che – continua Morcaldi – risultò al Generale Ferrè, alla Magistratura, al Giudice istruttore e allo “stesso Castellani, notabilità del Fascismo Fiorentino che capeggiò la spedizione punitiva, e col quale il Sig. Generale Ferrè ebbe a conferire successivamente in Grosseto”. Quando i camion dei fascisti lasciarono Grosseto alle 15, per raggiungere l’Hotel Bastiani, “loro quartier generale a Grosseto”, alle ore 18, Nardone avrebbe telegrafato alla Questura per identificare gli “italianissimi” e allora “l’Ispettore Generale di P.S. che aveva assunto la direzione del servizio in città, pur avendo a sua disposizione una forza complessiva di oltre 400 uomini (così ripartiti: 123 carabinieri – 88 bersaglieri – 93 artiglieri – 100 Guardie Regie e un numero imprecisato di agenti investigativi) non credette di tentare l’arresto non solo, ma nemmeno la identificazione dei fascisti […]. Morcaldi, dunque, conferma quanto relazionato dal Generale Ferrè, che “non è incline ad indulgere sulle responsabilità dei dipendenti, ove queste sussistano”, perciò riteneva che il Capitano Siccardi non avesse alcuna responsabilità, anche perché “la direzione del servizio in Roccastrada era tenuta dal vice commissario Dott. Nardone, ai sensi dell’art, 41 della legge 21 dicembre 1890 n. 7321 […], tanto più che il Capitano Sig. Siccardi comandava semplicemente un reparto di militari del Battaglione Mobile messo a disposizione del Funzionario[37]”.
Nell’inchiesta del Generale Morcaldi sono evidenti alcune difformità con quanto relazionato da Paolella, manifeste polemiche e l’attribuzione delle responsabilità ai rappresentanti di pubblica sicurezza. Come si è visto, a Grosseto non giunsero tutti e due i camion, perché uno tornò verso Campagnatico e i paesi di provenienza degli assassini. Aggiungiamo che nel libro di Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, si legge che “[…] a Grosseto, forti squadre di carabinieri avevano, sia pure invano, circondato gli alberghi Bastiani e Stella d’Italia per arrestare Dino Castellani e i suoi complici della Disperata di Firenze, reduci dalla carneficina. Infine si vociferava che fosse imminente il ritiro dei porti d’armi a “tutti gli onesti” (cioè ai fascisti)[38]“. Non ci è dato di sapere dai documenti quando il Generale Ferrè abbia conferito con Castellani, ma è certo che quest’ultimo si fosse dileguato – e su questo i sospetti dell’Ispettore Generale di P.S. erano fondati in relazione agli ordini di cattura emessi fra la fine di luglio e i primi di agosto, con molta probabilità rivelati in anticipo ai ricercati – perché il 4 agosto 1921 i fascisti si radunarono a Grosseto per la prima volta dopo i fatti di Roccastrada e a dirigere il fascio era l’ex Tenente Desiderato Orsini, nominato segretario politico per la provincia “in sostituzione del Castellani datosi alla latitanza”. Dopo aver conferito con il Prefetto Rocco, i fascisti poterono sfilare per Grosseto e cantare “Giovinezza”[39].
I riflessi della strage nella stampa locale
Si è visto che due delle vittime, i Bartoletti, erano repubblicani e altre tre vittime simpatizzanti. L’organo del Partito repubblicano “Etruria Nuova” non denunciò affatto con sdegno e decisione la strage, ma si limitò a scrivere, come riportarono Bianciardi e Cassola, che “Due dei nostri migliori iscritti altamente patriottici caddero ieri vittime inerti trucidate dal piombo fraterno”. Per questo motivo già si diceva: “I fascisti sono tendenzialmente repubblicani e i repubblicani sono tendenzialmente fascisti”. D’altra parte, nell’”Etruria Nuova” del 10 luglio, l’avvocato repubblicano Randolfo Pacciardi scriveva, riferendosi alla conquista fascista del capoluogo maremmano: “I fascisti non ci hanno toccato. Qualcuno di loro ha anzi ostentato la sua simpatia per i repubblicani. Non solo: abbiamo visto a far parte delle spedizioni facce note di giovani ex repubblicani maremmani[40]” e nel numero del 31 luglio si sosteneva la teoria dell’ agguato comunista.
Il giornale del Partito popolare “Rinnovamento” ricostruisce la vicenda con un articolo nel numero del 7 agosto 1921, riportato alle pp. 143-145 del già citato volume di Hubert Corsi La lotta politica in Maremma 1900-1925. Si tratta di una ricostruzione dettagliata, quella che più si avvicina alla esposizione dei fatti descritti nella relazione dell’Ispettore Generale di P.S. Paolella. La conclusione dell’articolo, dopo il riepilogo della strage: “Dopo di ciò i fascisti rimontano sui camions e stavano tornando via quando sono giunti i primi rinforzi di carabinieri: ciò dimostra con quale prontezza intervenga la forza pubblica a sedare i tumulti”.
Sfacciatamente di parte fascista è la posizione dell’ “Ombrone”, con l’articolo “Dopo i dolorosi fatti di Roccastrada” uscito nel numero del 30 luglio 1921. “L’epilogo sempre lo stesso, così a Grosseto come a Roccastrada; morti e feriti; la causa sempre la stessa; imboscata comunista violenta reazione fascista. Ma è opportuna qualche considerazione d’indole storica a cui si deve principalmente la causa prima dell’angosciosa giornata […]. Roccastrada è uno dei più ridenti e simpatici paesi della provincia […] la sua popolazione è buona, ospitale […] poco colta, capace di lasciarsi influenzare da chi ha la parola pronta […]- E siccome bravi organizzatori politici si trovano sempre e nei partiti estremi, e mai ne mancarono a Roccastrada, così ne è venuta la conseguenza che il popolo di quel paese nella sua maggioranza sia stato sempre estremista, ma finché l’estremismo era rappresentato dal Partito repubblicano… Ma quando è apparso all’orizzonte il sole leninista, parte di quella gente repubblicana […] varcò il rubicone e corse verso il nuovo partito[…]. E così si formò un forte nucleo socialista che man mano divenne comunista per la odiosa propaganda di due o tre cattivi cittadini […]. E così da quella pacifica e laboriosa popolazione sortono fuori individui capaci di organizzare una banda di saccheggiatori che si getta a Civitella […]; a dare un colpo di mazza nella testa all’avvocato Bruchi, a preparare una macabra imboscata contro la salma del povero Daus crivellando la cassa mortuaria con numerose pallottole di moschetto; a compiere quest’ultima che uccideva il buono il mite Ivo Saletti nell’atto che egli intonava Giovinezza”. Dunque la colpa di tutto dovrà ricadere su “quei capi però fuggiti dopo avere nella sera precedente organizzati i primi nuclei di Arditi del popolo, dovrà andare tutto l’odio, tutta la disistima della popolazione di Roccastrada perché ad essi unicamente spetta la responsabilità del terribile eccidio…[41]”.
I PROCESSI
Nell’adunanza parlamentare del 12 maggio 1922 il Sottosegretario per la Giustizia e gli Affari di Culto, l’Onorevole Cascino, in risposta all’interrogazione dell’Onorevole Merloni, notificava che l’istruttoria penale sui fatti di Roccastrada era diretta contro 48 persone, 15 comunisti e anarchici e 33 fascisti. L’istruttoria si era svolta con una certa difficoltà per vari motivi, riferiva Cascino, tra i quali l’identificazione dei colpevoli e la latitanza di gran parte di loro. Per questo motivo, per ovviare alla lentezza del procedimento, il Procuratore del Re e il Giudice istruttore avevano convertito i mandati di cattura in mandati di comparizione[42]. Il Sostituto Procuratore del Re di Firenze aveva rinviato a giudizio Castellani, Catone Corridori, Vittorio Furi, Lorenzo Fracassi, Nello Belli e Gaetano Fulgeri. Altri 31 fascisti incriminati, verso cui Paolella aveva fatto emettere mandati di cattura, furono prosciolti per non aver commesso il fatto, compresi i funzionari della prefettura e dell’intendenza, Attilio Esposito e Rocco di Rienzo[43].
In favore degli squadristi intervenne l’amnistia del 1922, che in pratica estinse tutti i reati loro contestati. Al contrario, gli antifascisti vennero processati e condannati, sia per l’uccisione di Rino Daus, sia per Ivo Saletti. Per quest’ultimo furono processati in contumacia Gaetano Fulceri e Nello Belli e condannati a vent’anni di galera per correità in omicidio[44].
Finalmente nel 1945-1946 si svolse il processo ai fascisti, poiché l’amnistia loro concessa fu annullata nel 1944 e poterono essere revisionate sentenze ritenute faziose per la sottomissione della magistratura al regime fascista. Nel processo del 1945 fu avanzata l’ipotesi che il colpo che uccise Saletti sarebbe partito dal fucile di un suo camerata, probabilmente alterato dall’alcol bevuto e che perciò non ci fosse stato nessun agguato. Ne “La Maremma contro il nazi-fascismo” la prof.ssa Nicla Capitini Maccabruni scrive:“ Ma è ormai accertato, soprattutto attraverso le risultanze del processo celebratosi nel 1945 che il Saletti fu vittima di un colpo partito per errore a un altro fascista. Difatti la pallottola lo colpì alla nuca fuoriuscendo dalla fronte: sembra quindi che sia da escludere che si sia trattato di un colpo sparato dal bordo della strada. Inoltre il terreno in quel tratto è scoperto, e non si vede dove avrebbe potuto appostarsi il presunto sparatore. Finalmente, non fu mai possibile rintracciare nessun colpevole, ad onta di tutte le ricerche compiute dalla polizia prima e dopo l’avvento del fascismo al potere[45]”. Tuttavia, come riporta Hubert Corsi, “La Corte non può mettere in dubbio che il Saletti fu colpito dall’azione di un avversario politico che si era appostato lungo la strada […] perché ciò è ormai affermato in una sentenza penale passata in giudicato e d’altra parte di ciò non si era mai dubitato che nell’ultima parte della seconda istruttoria[46]”.
A seguito del procedimento penale del 1946, la Corte di Assise di Grosseto emise, l’8 aprile, la sentenza con cui condannava a 25 anni di reclusione Dino Castellani, 22 anni e 6 mesi a Ostilio Tegardi (poi ridotti a 15) e varie pene da 18 a 11 anni a Federico Fineschi, Vittorio Furi, Mario Giannini, Arnaldo Albano[47].
Seguiamo, in particolare, la vicenda giudiziaria del principale responsabile dell’eccidio di Roccastrada: l’empolese Dino Castellani, della classe 1891, non senza prima aver riferito alcune notizie sulla sua “carriera” fascista. In un dispaccio del 1933 del Prefetto di Grosseto Giuseppe Celi, l’ex squadrista era così descritto: “Castellani Dino, ex segretario provinciale fasci a Grosseto, abitante a Firenze già, in Via della Scala 45, alto, robusto, collo corto, alquanto curvo spalle, biondo, occhio sinistro maculato, 45 anni[48]”. A quella data troviamo Dino Castellani coinvolto in una questione che riguardava Amerigo Dumini, uno dei responsabili dell’omicidio Matteotti. Dumini era ormai caduto in disgrazia e Mussolini lo reputava pericoloso per dei memoriali fortemente compromettenti che aveva spedito all’estero, certamente quelli riferiti all’omicidio Matteotti, peraltro pubblicati dal foglio clandestino “Non Mollare” nel 1925. In effetti Dumini, controllato dalla polizia, aveva deciso di riparare all’estero e per questo aveva assoldato Dino Castellani, rancoroso verso il regime perché era stato estromesso dalla carica di segretario dei fasci di Grosseto. Castellani e Dumini si incontrarono a Orbetello con Catone Corridori, proprietario della motobarca e vecchio amico del Castellani, in carcere con lui nel 1922 per la strage di Roccastrada. Castellani riferì a Corridori che Dumini era in possesso di documenti compromettenti e Catone non ci pensò due volte a riferire al Podestà di Orbetello del tentativo di espatrio, che a sua volta fu rivelato al Prefetto di Grosseto. La mattina successiva al primo abboccamento, Castellani e Corridori avrebbero dovuto incontrarsi, ma il primo era andato a Roma da Mussolini, a riferire che per un milione di lire avrebbe potuto avere le carte di Dumini. Quest’ultimo, venuto a conoscenza della manovra di Castellani, saputo che a Corridori erano state versate solo 100 lire, rispetto alle 5.000 che aveva anticipato all’empolese per la barca, insisteva per partire per la Corsica. Poco dopo scoprì che Catone Corridori era una spia della polizia. Così “il 9 agosto Dumini fu rispedito alle Tremiti per un altro periodo di 5 anni di confino. Castellani fu condannato a tre anni [49]”.
Dal Casellario Giudiziario apprendiamo che Castellani non fu iscritto al Partito fascista repubblicano. Tuttavia, anche durante il periodo della repubblica sociale, vi sarebbero tracce della sua attività in un fondo archivistico, formato da due buste, conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza Toscana: “Fatti e personaggi della Banda Carità”. La prima busta contiene due fascicoli, di cui il primo formato da sotto-fascicoli dei protagonisti del processo alla “Banda Carità”. Il sotto-fascicolo n. 13, formato da 9 carte, è intestato a un certo Castellani Dino. A meno che non sia un omonimo, ma dubitiamo di questo, non ci sorprenderebbe la sua collaborazione con il reparto di assassini e torturatori più feroci dell’ultimo fascismo.
Dal Casellario, ma anche dall’Atlante delle Stragi Nazifasciste, apprendiamo che, dopo la sentenza del 1946, fu rinviato a giudizio con sentenza 185/48, rispetto al processo della sezione penale di Grosseto dell’8 aprile 1946; i fatti contestati erano omicidio e furto a Roccastrada il 24 luglio 1921. La pena detentiva era 10 anni e la durata della pena 5 e 8 mesi (in origine 20 anni, ma 14 anni e 4 mesi subito condonati). Venne presentato un ricorso da parte dell’imputato alla Corte di Cassazione il 13 aprile del 1950 e la sentenza emessa il 30 gennaio del 1953. La Corte d’appello di Roma stabilì la pena a 9 anni e 6 mesi, di cui 7 anni e 4 mesi condonati.
CONCLUSIONI
La strage di Roccastrada ha rappresentato l’espressione più feroce dello squadrismo maremmano e del suo leader, l’empolese Dino Castellani, della classe 1891. Fatti di tale gravità furono discussi più volte in Parlamento attraverso varie interrogazioni degli Onorevoli Merloni e Garosi[50]. Come si è visto, i fascisti agirono con una violenza inaudita, colpendo a caso le vittime che nulla avevano a che vedere, tranne qualche eccezione, con il socialismo, il comunismo o l’anarchismo. Infatti, i principali esponenti di sinistra non erano a Roccastrada o riuscirono a fuggire. Abbiamo anche riferito di una vendetta privata, commessa da uno squadrista di Montepescali, episodio di cui fa menzione anche Mimmo Franzinelli in Squadristi, cioè l’omicidio di un anziano “al solo scopo che tempo addietro gli aveva rifiutato in sposa la figlia; detto individuo, iscritto al fascio, prese parte alla spedizione unicamente per espletare vendetta[51]”.
L’eccidio di Roccastrada non può essere interpretato unicamente come uno sfogo di rabbia e di veemenza eccessiva per la morte di Ivo Saletti, ma va inquadrato anche come risposta al tentativo di pacificazione con i socialisti che Mussolini, e la parte più moderata dei fascisti, stava in quel momento cercando di attuare. Infatti, l’opposizione al patto di pacificazione non era fortissima soltanto in Emilia Romagna, ma anche in Toscana, dove lo squadrismo si era ormai affermato: “ Per ora – dicono i rappresentanti della Toscana – si diano legnate con maggiore giudizio, ma non si deve mollare[52]”.
Ma ci chiediamo: perché Roccastrada? Che fosse una roccaforte dei “rossi” era cosa ben nota, dunque andava espugnata, cosa che i fascisti stavano facendo in quel 1921 anche nei confronti di altre amministrazioni socialiste e non solo. All’uccisione di Rino Daus, la notte fra il 29 e il 30 giugno del 1921, aveva partecipato il roccastradino Amedeo Pecci[53]. A Roccastrada i “rossi” avevano bastonato l’avvocato Bruchi e si è visto quanto il fatto fosse stato amplificato dalla stampa filofascista. Fra i motivi che avrebbero provocato la spedizione, inoltre, stando a quanto relazionato dal Generale Ferrè, dal Prefetto Boragno e da Alfredo Paolella, vi era quello di impedire la riunione per la costituzione di una sezione degli Arditi del Popolo. La riunione, ammesso che ci sia stata, faceva seguito ai fatti di Sarzana del 21 luglio 1921. In quest’ultima località le forze dell’ordine, comandate dal Capitano dell’Arma Guido Jurgens, reagirono con le armi a un tentativo di aggressione fascista. Alla difesa parteciparono anche la popolazione e gli Arditi del Popolo. Lo scontro causò la morte di 14 fascisti, cui si aggiunsero altri due linciati nelle campagne. I fatti di Sarzana, preceduti da quelli di Viterbo[54], arrecarono una battuta d’arresto nel fascismo, sia quello estremista, delle incursioni violente, che si vedeva fronteggiato e sconfitto sul campo, sia quello più propenso alla pacificazione con i socialisti. D’altra parte sarà lo stesso Mussolini a riferire, il 3 agosto 1921 al “Resto del Carlino”, che “la pace poteva essere dettata a condizioni più dure un mese fa, prima che la stella del fascismo […] impallidisse un po’ per i fatti di Viterbo, Treviso, di Roccastrada…[55]”.
Dino Castellani pare avesse più volte dichiarato di voler vendicare i morti di Sarzana e la notizia, che a Roccastrada i “rossi” si stessero organizzando per difendersi da altre incursioni, potrebbe essere stata, se confermata da altri documenti, l’occasione per entrare in azione. Hubert Corsi, riferendosi alla riunione di Roccastrada del 23 luglio, ha scritto: “Se ciò fosse esatto potrebbe prendere corpo la tesi che la spedizione punitiva contro Roccastrada fu pensata come occasione di vendetta per i fatti di Sarzana […][56]”.
Sarà anche una coincidenza, che richiede senza dubbio ulteriori approfondimenti, ma la sera del 24 luglio 1921 alle ore 22, quindi poco prima che i camion partissero per Roccastrada, una cinquantina di fascisti erano in attesa alla stazione di Grosseto del Treno 16, sul quale viaggiava l’onorevole Giretti [57], diretto a Sarzana. Durante la sosta, alle 22,35, gli squadristi “si erano intrattenuti” con Giretti, che non era potuto risalire sul treno, mentre i suoi bagagli proseguirono verso la destinazione. Con altro treno era giunto l’ispettore Riparto, che aveva ristabilito l’ordine presso l’ufficio telegrafico ed era venuto a conoscenza dell’incidente accaduto a Giretti. I fascisti non si erano allontanati di molto, solo spostati poco più in là, per malmenare due lavoratori delle ferrovie in una stazione del tutto incustodita[58].
La mattina del 26 luglio 1921 si erano tenuti i funerali delle vittime dell’eccidio, con una grande partecipazione di popolazione, senza alcun incidente. In pomeriggio, a Grosseto furono si svolsero le esequie di Ivo Saletti, con varie rappresentanze dei fasci toscani “con 4 musiche e alcune migliaia di persone”. A piazza Umberto I pronunciarono i loro discorsi il presidente dell’Agraria maremmana, il mancianese On. Aldi Mai, e il segretario dei fasci provinciali Dino Castellani, ancora a piede libero[59].
Dei funerali di Saletti riferiscono, fra gli altri, Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, i quali riportano che la lapide del fascista ucciso fu dettata dal canonico Cappelli, direttore della Biblioteca Chelliana e che Castellani, prima di darsi alla latitanza, fece affiggere un manifesto ingiurioso verso l’Ispettore Paolella, con la frase: “Nell’ora della reazione loiolesca di chi ci ha spinto, ed ora vigliaccamente cerca di scagionarsi dalle responsabilità…”. Dunque, “le autorità sono state fino a quel momento conniventi, mentre ora cercano di fare marcia indietro. Il commissario Paolella sembra essere il solo che abbia fatto sempre il proprio dovere[60]”.
Il 16 ottobre del 1922 i fascisti inaugurarono il gagliardetto del fascio di combattimento a Roccastrada. Alla festa, alla quale partecipò anche il segretario dei fasci di Siena Chiurgo e più di 500 fascisti con le loro bande musicali, “non è mancata la presenza del Castellani, capo della nefanda spedizione del 24 luglio, accompagnato dal corvo on. Sarrocchi. [,,,]. Tutti gli assassini danzavano la ridda quasi sui corpi delle proprie vittime[61]”. Ormai il paese era “ripulito”: gli antifascisti rimasti erano soggetti al controllo e alle vessazioni poliziesche, mentre altri furono costretti a emigrare, specie in Francia. Fra questi ricordiamo Gaetano Fulceri, Ferdinando Tagliaferri, Davide Bartaletti, Dante Nativi ed Enrico Poggiali.
LEO LANDINI
Nel 2005 Massimo D’Alema, presidente del Partito dei Democratici di Sinistra, affidò alle pagine dell’ ultimo libro di Bruno Vespa, anticipate da Panorama, un giudizio negativo sull’ esecuzione del duce avvenuta il 28 aprile del 1945 a Giulino di Mezzegra. “L’ uccisione di Mussolini – asserì D’ Alema – fa parte di quegli episodi che possono accadere nelle ferocia della guerra civile, ma che non possiamo considerare accettabili[62]”. L’affermazione provocò una risposta sdegnata da parte di partigiani e antifascisti. Fra gli altri, rispose Leo Landini, figlio di Aristodemo Landini[63] con una mail pubblicata su “Patria Indipendente” dell’11 dicembre 2005. Dopo essersi dichiarato “scandalizzato” per quanto asserito dal leader del PDS, Landini rievocava la storia della sua famiglia e quella sua personale: “Il 24 luglio 1921 mio padre, consigliere comunale del comune di Roccastrada (provincia di Grosseto), vede un autocarro scaricare dei fascisti. Alcune ore più tardi il villaggio contava i suoi morti, 9 persone uccise, 70 feriti, la borsa del lavoro e decine di case incendiate. Poiché mio padre è riuscito a sfuggire, i fascisti sono tornati a Roccastrada a tre riprese per provare ad abbatterlo. Benché gli abbiano sparato più volte non sono riusciti a toccarlo.
Per salvare la sua vita ha dovuto fuggire in Francia dove sono nato io nel 1926. E’ potuto tornare in Italia soltanto 24 anni più tardi: non ha potuto assistere ai funerali della madre. Vivevamo a Saint-Raphael, nel dipartimento del Var. Nel maggio del 1943, mio padre e mio fratello Arnolfo sono stati fermati dagli uomini di Mussolini. Sono stati torturati entrambi in maniera terribile. Mio padre di 52 anni è stato picchiato a colpi di catene. A mio fratello i fascisti gli hanno fatto bere un litro di petrolio e mangiare un chilo di sale e siccome si rifiutava di parlare gli hanno fatto il supplizio del casco. E’ rimasto 6 ore in coma. In seguito egli ha simulato la pazzia per oltre 4 mesi. Deportati in Germania, sono evasi ed hanno raggiunto il maquis.
Il 25 luglio del 1944 sono stato fermato io. Torturato, sono grande mutilato di guerra [64]. Ufficiale della legione d’onore. Medaglia della Resistenza. Ufficiale della Resistenza. Decorato dall’Unione Sovietica. Sono Presidente di diverse associazioni di ex combattenti della Resistenza.
Dopo aver terribilmente sofferto per Mussolini e il suo fascismo, io e la mia famiglia, sono nauseato nel sentire quel che avrebbe detto D’Alema.
Vi ringrazio dal fondo del cuore per la vostra azione. Tengo con la presente a salutare e ringraziare i partigiani italiani che hanno giustiziato un grande criminale. Finché compagni come voi saranno là per far intendere la nostra voce, non sarà tutto perso.
GRAZIE[65]”
Leo Landini
FRANCO DOMINICI e GIULIETTO BETTI
Note
[1] Il testo della lettera inviata al sindaco di Roccastrada, Natale Bastiani, da parte del marchese Dino Perrone Compagni, è ripreso da: “Roccastrada. Cronaca di una strage” di Roberto Cantagalli, in “La Maremma contro il nazifascismo”, a cura di Nicla Capitini Maccabruni, pag. 53, La Commerciale, Grosseto 1985.
[2] “Il Risveglio”, “Roccastrada”, Primo maggio 1920.
[3] Si veda “Il Risveglio, “Cooperativa Agricola Produzione e Lavoro” Roccastrada, 20 febbraio 1921.
[4] “Il Risveglio”, “Roccastrada”, 12 settembre 1920.
[5] Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, 1 Sessione – Discussioni- Tornata del 3 dicembre 1920, Onorevole Umberto Grilli; “Il Risveglio”, 12.12. 1920.
[6] L’ “Ombrone, “Sui fatti di Civitella” , 20/12/1920. Si veda anche “Il Risveglio”, “Echi dei fatti di Civitella”, in cui, peraltro, viene pubblicata una breve lettera di Natale Bastiani al direttore dell’ “Ombrone”.
[7] L’ “Ombrone”, “La prima vigliaccata in Provincia” , 10 maggio1921.
[8] “Il Risveglio”, “Il fattaccio di Roccastrada”, 15 maggio 1921.
[9] “Il Risveglio”, “Corrispondenze. Roccastrada”, 15 maggio 1921.
[10] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98, telegramma del prefetto Boragno n. 24497 del primo luglio 1921.
[11] La Sentenza della Corte d’ Assise di Gr del 3/12/1925, riguardante gli 8 imputati di correità nel delitto di omicidio volontario ai sensi degli art. 63 e 363 C.P. , accusati di aver cagionato la morte del fascista Rino Daus mediante colpi di fucile il 29/6/1921, condannò: Pecci Amedeo, Lodovichi Aurelio e Niccoli Foresto alla pena della reclusione ad anni 21 ciascuno; Bongini Edoardo alla pena di 20 anni di reclusione; Carletti Libertario alla pena di anni 17 e mesi 6; Scheggi Priamo alla reclusione per anni 10 (per aver concorso al fatto) e tutti alla interdizione perpetua dei pubblici uffici ed a quella legale durante la pena. Furono assolti Ceccaroli Giovanni e Bertozzi Ovidio.
[12] Secondo alcuni studiosi presso Sassofortino.
[13] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98 telegrammi dell’Ispettore Paolella n. 24.620 e 24.623 del 2 luglio 1921. Fra l’altro si fa riferimento alle aggressioni a Bocca d’Ombrone e a Sasso d’Ombrone. In quest’ultimo paese, del comune di Cinigiano, fu invasa la cooperativa socialista e distribuiti generi alimentari alla popolazione, oltre a invadere la casa del sindaco da cui furono asportate carte consegnate al parroco. Anche in questo caso i carabinieri reali non poterono impedire la devastazione. Paolella segnala anche la presenza del marchese Perrone Compagni a Grosseto, giunto per assistere ai funerali di Rino Daus.
[14] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98 telegrammi del prefetto Masino n. 24.786 del 4 luglio 1921.
[15] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98 telegramma del prefetto Boragno n. 26.609 del 18 luglio 1921.
[16] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98 telegramma di Paolella n. 25111 del 6 luglio 1921; telegramma n. 25293 e n.25374 del prefetto Boragn0 dell’8 luglio 1921; telegramma di Paolella n. 25264 dell’8 luglio 1921.
[17] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98 telegramma del ministro Bonomi n. 15.942 del 9 luglio 1921.
[18] Per le aggressioni dei fascisti maremmani, guidati da Ferdinando Pierazzi, alla cittadina di Civitavecchia, si veda il bel lavoro di Enrico Ciancarini, “Il fascio spezzato. Gli Arditi del popolo nella ribelle, irriducibile Civitavecchia, 19 maggio 1921/18 ottobre 1922, Red Star Press 2016.
[19] Marco Grilli, Tesi di laurea.
[20] Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, 1 Sessione – Discussioni- Tornata del 25 luglio 1921, On. Merloni. In quella stessa Sessione le interrogazioni relative a Roccastrada furono inoltrate anche dagli Onorevoli Bergamo, Conti e Garosi. Il Governo, per bocca del Primo Ministro Bonomi, dato il numero delle interrogazioni, non può rispondere d’urgenza.
[21] Archivio N.C. Maccabruni-Giulietto Betti, Violenze fasciste 1920-1924, Provincia di Grosseto, in Fascismo: Inchiesta delle gesta dei fascisti in Italia, Ed. Avanti, Milano 1922, pp.336-338. Minocchi Francesco, in realtà è Minoccheri.
[22] Roberto Cantagalli, “Roccastrada, cronaca di una strage”, in “La Maremma contro il nazi-fascismo”, a cura di Nicla Capitini Maccabruni, La Commerciale, Grosseto 1985, pag. 56.
[23] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98, Relazione del Generale di Brigata Ferrè, comandante del gruppo Legione Carabinieri Reali. Inchiesta sui fatti di Roccastrada indirizzata al Comando Generale dell’Arma dei CC. RR. Di Roma in data 27 luglio 1921.
[24] Antonio Boragno, Prefetto di Sassari, aveva ricoperto l’incarico in Maremma dal 16 novembre 1920 al 26 luglio del 1921, quando fu collocato a disposizione; Raffaele Rocco, Prefetto a disposizione, rimase a Grosseto dal 26 luglio del 1921 al 18 giugno del 1922, quando fu nominato Prefetto di Girgenti. Si veda M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del Regno d’Italia. Ministero dell’Interno. Pubblicazione degli Archivi di Stato – Fonti e Sussidi – III, Roma 1973, pag. 373.
[25] Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, 1 Sessione – Discussioni- Tornata del 10 novembre 1920, Onorevole Merloni. La vittima, di fede socialista, si chiamava Angelo Cassioli. Il fatto è riportato da “Il Risveglio” del 10 ottobre 1920 nell’articolo “Assassinio Brutale”. Altri pesanti interventi della forza pubblica, riferiti dal settimanale socialista, con morti e feriti, si verificarono a Capalbio il 20 maggio del 1920, ad Arcidosso ai primi di agosto del 1920, ad Abbadia San Salvatore il 17 ottobre del 1920, a San Martino sul Fiora, l’8 gennaio del 1921.
[26] Secondo quanto ha scritto Hubert Corsi, questo camion di fascisti, quasi tutti stipendiati dagli agrari della zona, fu costretto a una sosta presso la Fattoria “La Pescaia”, a circa 14 chilometri da Roccastrada. Si veda Hubert Corsi, “La lotta politica in Maremma 1900-1925”, Ed. Cinque Lune, Roccastrada 1987, pag. 143.
[27] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98, Relazione del Prefetto Boragno al Ministero dell’Interno scritto da Tortona il 15 agosto del 1921. In un telegramma del 24 luglio 1921, contenuto nella busta 99 dell’Archivio Centrale dello Stato, G.G.P.S. 1921, il Prefetto asserisce che oltre a Saletti, rimasero feriti altri due fascisti.
[28] Alfredo Paolella era nato il 27 novembre del 1868. Entrato in polizia nel 1890, era diventato Commissario nel 1917. Era stato inviato dal Ministero dell’Interno per indagare sulle violenze in Provincia di Grosseto e in altre località della Toscana. (Informazioni ricevute dall’Ufficio Storico della Polizia di Stato che ringraziamo per la cortesia).
[29] Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo, cit. pag. 24.
[30] Pur essendo un atteggiamento abbastanza diffuso nei reali carabinieri, non mancano esempi in provincia di Grosseto di gestione dell’ordine pubblico imparziale o addirittura di carabinieri apertamente antifascisti. E’ il caso del Maresciallo Amedeo Sacchero, comandante della stazione di Santa Fiora, il cui comportamento antifascista viene segnalato dal segretario politico Bartolozzi a Pierazzi nella seguente missiva: “Risulta che detto maresciallo in un esercizio pubblico ha appeso all’occhiello della giacca di alcuni comunisti dei garofani rossi, ha perquisito e denunciato per porto abusivo di rivoltella due militi…proibisce ai fascisti ed ai militi di passeggiare anche isolatamente giustificandosi col dire che solo la loro presenza provoca i comunisti. Ha minacciato di arresto i fascisti che troverà fuori di casa in occasione di riunioni sovversive. (…) Sobilla i fascisti contro i loro capi. Prende parte ad adunanze di sovversivi. (…) Afferma che il F. di S. Fiora è composto di farabutti di vigliacchi (…) Chiude le finestre della Caserma quando in pubblica piazza si suona “Giovinezza”. Ha detto che stima solo chi esce dal Fascio. (…) I fascisti sono indignatissimi e rimangono disciplinati in attesa dei provvedimenti che la S.V. crederà opportuno di prendere”. Si veda Archivio di Stato di Grosseto, Questura, busta 501, fascio di Santa Fiora, lettera del segretario politico Giaberto Bartolozzi all’avvocato Ferdinando Pierazzi del 15 gennaio 1924.
[31] Morirà, a causa della ferita, all’ospedale di Grosseto il 9 agosto del 1921.
[32] I 46 squadristi appartenevano a diverse classi sociali: ci sono gli impiegati, come Dino Andreani, dipendente dell’Agraria Toscana e membro del direttorio del fascio grossetano, ci sono artigiani, come l’arrotino Bruno Saletti , il fornaio Mario Giannino e vari contadini dipendenti di Amilcare Rossi, l’agrario di Campagnatico che aveva fornito uno dei camion. La direzione dell’operazione fu svolta da Castellani, dal fiorentino Armando Albano, con l’aiuto di Tegardi, Giannini, Furi e Fineschi. Si veda Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919.1922, Il Leccio, 2015. Le pagine da 171 a 207 sono dedicata ai fatti di Grosseto e Roccastrada, fra l’altro con un’ottima ricostruzione della strage, con una mappa che indica i luoghi, da quello dell’agguato, cioè la collinetta dell’Olmino, il Poder di Bello dei Bartoletti, il gruppo di case di Convento e poi il centro del paese. Altri squadristi, facenti parte della spedizione di Campagnatico, ordinata, secondo le testimonianze, da Egisto Bacciarelli, segretario politico, sono: Iader Landi, Luigi Butelli, Garibaldo Ricciardi, Ottorino Tegardi, Giovan Battista Benvenuti, Adone Gragnoli, Domenico Giovannelli, Gino Sestigiani, Adelando Caporali e Vito Stefani. Si veda Laura Benedettelli e Martina Giovannini (a cura di), Alcuni racconti della mia vita. Come ho fatto il partigiano. Le memorie di Adamo Muzzi, ISGREC, Comune di Roccastrada, Effigi, Arcidosso 2008, pp. 20-23.
[33] Il ragioniere dell’Intendenza di Finanza fu trasferito alla sede di Treviso, “ove dovrà assumere servizio i primi di agosto”. Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98, Telegramma del Ministro del Tesoro del Regno De Nava al Prefetto del 30 luglio 1921.
[34] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S busta 98, 1921, Relazione dell’Ispettore Generale di P.S. Paolella “Conflitti a Grosseto e provincia” del 4 agosto 1921. Una prima breve relazione, in realtà un telegramma riassuntivo degli eventi, fu inviato da Paolella il 25 luglio 1921. Si tratta del telegramma n. 27524 contenuto nella busta 99 dell’Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921.
[35] Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Ed. Cinque Lune, Roccastrada 1973, pag. 146, nota 24. Peraltro Corsi riporta buona parte del documento in questione.
[36] Vice-Comandante Generale dell’Arma dei RR.CC. dal gennaio del 1918 al settembre 1922; l’ufficio 2° del Comando Generale dei Reali Carabinieri si occupava di valutare l’impiego della forza nelle varie situazioni.
[37] Archivio Centrale dello Stato D.G.P.S. 1921, busta 98, Risposta alla nota del 12 agosto u.s. n. 20352 Divisione Affari Generali, Oggetto: Per i disordini avvenuti a Roccastrada il 24 luglio –Inchiesta – 15 settembre 1921, Tenente Generale Comandante in 2° Luigi Morcaldi.
[38] Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, cit., pag. 262.
[39] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 98, Telegramma del Prefetto Rocco del 4 agosto 1921.
[40] Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, Gli inizi del fascismo in Maremma in Comunità, cit. , pag. 35.
[41] L’ “Ombrone”, Dopo i dolorosi fatti di Roccastrada, 30 luglio 1921.
[42] Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, 1 Sessione – Discussioni- 2°Tornata del 12 maggio 1922.
[43] Aristeo Banchi “Ganna”, Si va pel mondo, cit. pag. 38.
[44] Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919.1922, cit., pag. 198.
[45] La Maremma contro il nazi-fascismo, a cura di Nicla Capitini Maccabruni, cit., pag. 31.
[46] Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma 1900-1925, cit., pag. 146, nota n. 44.
[47] Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919.1922, cit., pp. 201-202. O. T. era il fascista di Sassofortino, che aveva preso parte alla strage anche per la sua vendetta privata.
[48] Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Saggi Valecchi, Firenze 1972, pag. 393.
[49] Sulla vicenda si veda, oltre il già citato Roberto Cantagalli, Robert Tompkins, Dalle carte segrete del duce. Momenti e protagonisti dell’Italia fascista nei National Archives di Whaschington, Il Saggiatore 2010, pp. 277-279.
[50] Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, Legislatura XXV, 1 Sessione – Discussioni- Tornata del 25 luglio 1921, del 26 luglio 1921, del 18 marzo 1922 e II° Tornata del 12 maggio 1922.
[51] Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza squadrista, Feltrinelli 2019, pag 130.
[52] Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, vol. 1, Laterza, Bari 1982, pag. 235.
[53] Anarchico, aveva ricoperto la carica di segretario del gruppo “Germinale”, classe 1887, di professione meccanico, condannato assieme ad altri a 21 anni per l’uccisione di Daus con sentenza della Corte d’ Assise di Gr del 3/12/1925. Si veda Archivio di Stato di Grosseto, Fondo Questura, Casellario Politico Centrale, b. 435, Pecci Amedeo.
[54] Per questi ultimi si veda Silvio Antonini, Faremo a fassela. Gli Arditi del Popolo e l’avvento del fascismo nella città di Viterbo e nell’Alto Lazio (1921-1925), Sette Città, Viterbo 2011.
[55] Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, Gli inizi del fascismo in Maremma, cit. pag. 35.
[56] Hubert Corsi, La lotta politica in Maremma 1900-1925, cit., pp. 142-143 nota n. 37.
[57] Edoardo Giretti, piccolo industriale serico piemontese, era stato eletto deputato per il Partito Radicale nel collegio piemontese di Bricherasio nel 1913 e sino al settembre 1919. Cfr. https://storia.camera.it/deputato/edoardo-giretti/
[58] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, Telegramma n. 20235 inviato dal Ministro dei Lavori Pubblici Giuseppe Micheli al Ministro dell’Interno.
[59] Archivio Centrale dello Stato, D.G.P.S. 1921, busta 99, Telegramma del Prefetto Rocco del 26 luglio 1921.
[60] Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, Gli inizi del fascismo in Maremma in Comunità, n. 23 febbraio 1954.
[61] “L’Ordine Nuovo”, “La festa di Roccastrada”, n. 294 del 22 ottobre del 1921, in Aristeo Banchi “Ganna”, Si va pel mondo, cit., pp- 26-27.
[62] “La Repubblica”, Un errore uccidere Mussolini, 4 novembre 2005, articolo di Silvio Buzzanca.
[63] Aristodemo Landini, nato a Torniella di Roccastrada nel 1891, di professione legnaiolo, era stato eletto consigliere comunale socialista a Roccastrada. Scampò alla spedizione fascista del 24 luglio 1921 e per sfuggire alle violenze fasciste fu costretto ad emigrare con tutta la famiglia in Francia. Il suo nome venne inserito nell’elenco degli antifascisti espatriati clandestinamente e ricercati dalla polizia. Cfr il Bollettino di ricerca del Ministero dell’Interno n. 21 del 31/8/1937. Aderì al Partito Comunista Francese (PCF). Nel maggio 1943 venne arrestato e picchiato da militi fascisti con il figlio Arnolfo, detto Roger. Quest’ultimo, della classe 1914, era stato un venditore di giornali, di fede comunista. Mentre venivano deportati in campo di concentramento, riuscivano a fuggire e raggiungere i partigiani francesi del Maquis. Cfr. Scheda biografica in Archivio Nicla Capitini Maccabruni.
[64] Leo Landini, nonostante la giovane età, era entrato a far parte dell’organizzazione partigiana francese vicina al Partito Comunista francese, i Francs-Tireurs et Partisans (FTP). Aveva partecipato a numerosi sabotaggi e azioni contro linee ferroviarie, stradali e fabbriche. Il 25 Luglio 1944 era arrestato e consegnato alla Gestapo tedesca a Lione, dove era pesantemente interrogato e torturato da parte di Klaus Barbie, per indurlo a denunciare i compagni. Cfr. Wikipedia France – Voce Léon Landini. https://fr.wikipedia.org/wiki/Léon_Landini
[65] “Patria Indipendente”, 11 dicembre 2005, Lettere al direttore, Io torturato dico: D’Alema ha torto, di Leo Landini.