Domenico Tiburzi era il suo nome
E nelle notti tristi e senza luna
Col suo fucile stretto sopra il cuore
Sfidava la tempesta e la fortuna…
Era mpossibbile da chiappallo,
perché c’éa pure lue le su spie,
ce l’éa perché le pagava bene..
Ogni storia che si tramanda di bocca in bocca ha sempre un fondo di verità, ma a raccontarla ogni volta la si arricchisce di qualche particolare, ed è così che quasi sempre la verità viene storpiata, stravolta, ingigantita: spesso da cronaca diventa romanzo, a volte leggenda e altre volte mito. In un contesto di fine ottocento in Maremma, tra miseria e buoni sentimenti, gioia di vivere mista a malcontento per una esistenza di stenti e privazioni la vita scorreva tra chiacchiere, racconti e passa parola tra la gente dei borghi dell’Alta Tuscia e della Bassa Maremma. Ormai assodata da tutti, l’aura di imprendibilità del brigante Domenico Tiburzi era già divenuta leggenda. In venticinque anni di latitanza il tanto discusso e cantato Re del Lamone, signore delle macchie e dei pascoli regnava su quella terra che il fiume Fiora spartiva tra Granducato di Toscana e Patrimonio di San Pietro, in quel periodo poi riuniti nel neonato Regno d’Italia. Vivere alla macchia per un quarto di secolo non era stata certo cosa facile: era indispensabile possedere l’intuito del predatore e la prudenza della preda. Domenico Tiburzi viene sovente ricordato nelle cronache per la famigerata “tassa sul brigantaggio”, una pratica squisitamente mafiosa, grazie alla quale il Domenichino si assicurava delle entrate fisse che gli garantivano la possibilità di concedersi qualche lusso, buon vino, armi all’ultimo grido e donne consenzienti. Al contempo la fitta rete di manutengoli, distribuita principalmente tra Ischia di Castro e Farnese, richiedeva non pochi favori ed elargizioni, ma nonostante la generosità degli aiuti offerti dai briganti ai propri fedeli, le taglie in denaro pendenti sulle teste dei malfattori potevano sempre ingolosire qualche paesano. Chiaramente chi tradiva avrebbe pagato col sangue, così da divenire un monito per altri eventuali delatori. C’era chi faceva la spia per professione e chi invece sperava in un colpo solo di sistemarsi economicamente. Domenichino non uccideva i carabinieri, che chiamava “figli di mamma”, e cercava di non gettare l’attenzione delle autorità su di se, ma quando qualche paesano finiva per diventare un confidente troppo intimo delle forze dell’ordine non poteva mancare una sonora scarica di botte, o a volte una botta di fucile. Una storia che all’epoca fece scalpore è quella di Antonio Vestri detto Tonino, taglialegna di Farnese. Correva l’anno 1882, e da molto tempo egli era manutengolo e confidente di Tiburzi, mangiava alla tavola dei briganti e ne traeva benefici economici. Un giorno il sor Tonino, spinto dall’ingente ricompensa per chi avesse permesso la cattura (vivo o morto) del Tiburzi, decise di aiutare i carabinieri, svelando il rifugio dei briganti nel Lamone. Fatalmente l’arma si inceppò e i rumori derivati dall’imprevisto bastarono a mettere in allarme i banditi, che anche in quell’occasione riuscirono a farla franca. Però, per sua sfortuna, il Vestri fu riconosciuto da Tiburzi tra la vegetazione. Preso dal panico si nascose in casa per sei mesi, ma nessuno dei briganti si era più fatto vivo, nonostante gli spergiuri e le minacce che Nicola Tiburzi, “figlio del Re Domenico”, spesso gli faceva riportare dai farnesani. Giunta infine la settimana Santa del 1883 il Vestri prese il coraggio a due mani. Pensando addirittura di essere stato perdonato, in nome di una vecchia amicizia e dei tanti servigi offerti ai briganti, decise di recarsi al Lamone a far legna. Prese quindi i due muli, ma lasciò il figlio a casa, in quanto aveva gli stivali a riparare dal calzolaio. Giunse infine alla selva e dopo aver fatto sufficiente legna il Vestri prese la via del ritorno verso Farnese. Nel frattempo aveva incontrato altri paesani a cui si era accodato, ma tutto un tratto da dietro i frattoni ai margini del Lamone uscirono fuori due uomini armati fino ai denti, la cui vista doveva aver gelato il sangue ai presenti. Diretti proprio verso il Vestri i due si mostrarono, erano proprio Tiburzi e Biagini. Il malcapitato conscio delle sue colpe provò a giustificarsi, facendo appello all’amicizia che per anni era perdurata tra i briganti e il boscaiolo. Non riuscì a terminare la frase che già Tiburzi gli aveva esploso un colpo di fucile che mancò il bersaglio. Il povero Vestri provò a scappare, ma ben presto un’altra deflagrazione lo prese in pieno ed egli cadde ansimante. Biagini si fece vicino e sparò un altro colpo mortale, mentre Tonino giaceva a terra, poi Tiburzi prese un lungo coltello e dopo avergli tagliato la gola lasciò il disgraziato in una pozza di sangue. Ormai invasati dalla furia omicida i due briganti tra sputi, ingiurie e bestemmie verso la spia presero i due somari del Vestri e li uccisero mediante coltellate al ventre. Il Biagini disse ad alta voce: “questa è roba mia, glie l’ho pagata io e mi va d’ammazzarla”, mentre Tiburzi urlava: “ti sta bene brutta spiaccia”. I presenti assistettero in silenzio all’omicidio, poi ripresero ciascuno la sua strada. Tiburzi a quel punto disse a uno di essi che se ci fosse stato il figlio del Vestri avrebbe ammazzato pure lui, e che avrebbero potuto raccontare quello che avevano visto, così da fare da esempio per chi in futuro avesse a sua volta pensato di fare la spia. Successivamente la vedova di Tonino Vestri, che nei mesi successivi alla “spiata” aveva ricevuto qualche soldo dalla pubblica amministrazione, chiese di essere risarcita con la taglia promessa al marito, giacché egli aveva rispettato l’accordo, e che solo l’incapacità dei carabinieri aveva fatto fallire. Per un po’ di tempo essa ricevette un rimborso mensile di 100 lire, che ben presto cessò per “mancanza di fondi”. Questo fatto fu gravissimo e gettò sempre più diffidenza da parte della gente verso le autorità, tanto che le taglie furono considerate solamente un inganno: uno specchio per allocchi, anziché per allodole. La vita del brigante non era per tutti, bisognava possedere in primis una naturale avversione alle regole precostituite e alle imposizioni. Era necessario poi un fisico robusto per sopportare le lunghe notti all’ addiaccio, l’umidità, i reumatismi per il guadare di volata la Fiora quando inseguiti da una o dall’altra parte. Bisognava essere generosi con la gente locale, pronti ad elargire nel ricevere informazioni e mostrarsi più vicini alla gente più di quanto facesse la pubblica amministrazione, ma era comunque necessario mantenere le posizioni e farsi sempre rispettare, così da salvaguardare, grazie all’autorità e all’intimidazione, la propria sopravvivenza.
Fonti: il Brigantaggio nel Viterbese (Scipioni 1993); Tiburzi senza Leggenda (Scipioni 1995)