Scrisse Angelo Tasca che se si doveva
“conquistare Grosseto, dove il fascismo è impotente, si comincia coll’inviare da Firenze quattro fascisti ben allenati, per incoraggiare e guidare i fascisti locali. Dopo si prepara la spedizione: il segretario del fascio di Siena ordina che due auto vadano a portare l’ordine di mobilitazione ai fascisti limitrofi alla linea Siena – Chiusi, pronti per una concentrazione a Grosseto… Dei rinforzi giungono d’ogni parte, fin da Firenze e da Perugia… Grosseto, ove i fascisti erano quasi ignoti è occupata e passa essa pure sotto il loro controllo”
(Angelo Tasca, Nascita e avvento: l’Italia dal 1918 al 1922, vol. I°, Laterza, Bari, 1982, pag. 189).
Il primo marzo del 1921 il proletariato grossetano scioperava per protesta contro le violenze fasciste a Firenze, dove, il 27 febbraio, era stato assassinato dagli squadristi il comunista Spartaco Lavagnini, freddato con 4 colpi di pistola al suo tavolo di lavoro. Lo sciopero, da Firenze, si diffuse rapidamente in tutta la Toscana. A Grosseto vi aderì il personale ferroviario, delle industrie e del commercio, il Partito repubblicano e il gruppo anarchico. L’adesione riguardò anche parte del personale delle poste e il sindaco, visto che l’agitazione si era estesa al giorno successivo, in via precauzionale ordinò la chiusura delle scuole elementari. Gli scioperanti si organizzarono per impedire il traffico in entrata e uscita da Grosseto, presidiando le porte di accesso alla città, una delle quali, Porta Nuova, era dotata di cancelli e veniva normalmente serrata per impedire il contrabbando. Gli operai in agitazione temevano l’arrivo di 100 fascisti da Pisa, allarme tutt’altro che infondato, perché pervenuto telegraficamente al capo stazione la sera del primo marzo. Lo sciopero si concluse nel primo pomeriggio del 2 marzo, dopo un comizio; l’unico incidente degno di rilievo fu a danno del Dottor Giuseppe Mascagni, medico condotto di idee liberali, accusato di aver pronunciato un discorso filo-fascista a Firenze. Individuato presso la farmacia Severi di Piazza Vittorio Emanuele, fu invitato a uscire da un gruppo di manifestanti, ma l’intervento della forza pubblica permise al medico di raggiungere la propria abitazione, anche se a notte fonda.
La situazione stava precipitando anche per il capoluogo maremmano e per questo il prefetto Boragno segnalava al Ministero dell’Interno la scarsa disponibilità di forza pubblica, composta da 23 carabinieri, di cui 8 dislocati presso la Corte d’Assise, 6 agenti investigativi, 4 finanzieri e una trentina di soldati[1].
I timori di Boragno erano tutt’altro che infondati, perché, concluso lo sciopero, un gruppo di viaggiatori del Treno I, dichiaratisi fascisti, con un tenente degli Arditi, ex legionario fiumano, alle ore 23 minacciarono di morte a mano armata i ferrovieri Gino Torrenti e Ferdinando Campanella, ritenuti responsabili del ritardo del convoglio, nonostante lo sciopero si fosse concluso dal pomeriggio. Alle minacce assistette anche l’On. Ancona, che approvò l’operato dei fascisti, minacciando il personale delle ferrovie di trasferimento. Il treno avrebbe ripreso il viaggio 45 minuti dopo. Alla stazione erano presenti 2 carabinieri, ma, secondo il prefetto, non si accorsero di nulla, perché il fatto avvenne in prossimità del deposito locomotive[2]. Alla fine di aprile la situazione in provincia si aggravò, tanto da richiedere l’intervento del Primo ministro Giolitti, che con un telegramma allertava il prefetto, invitandolo a contrastare con fermezza azioni e intimidazioni degli squadristi e concludendo di essere stato informato “di minacce rivolte contro Sindaco di Rocca Strada et segretario Federazione minatori[3]”.
Qualche giorno dopo, presso la frazione di Monterotondo, al confine con la provincia di Pisa, 12 fascisti giunti da Volterra, armati di fucili e pistole, devastarono i locali della sezione socialista e del gruppo anarchico e incendiarono la mobilia in mezzo alla strada. Dopo aver esposto il tricolore, gli “italianissimi” lasciarono il paese senza alcun impedimento. Da accertamenti compiuti dal prefetto di Pisa De Martino e dal sottoprefetto di Volterra, risultò che i fascisti provenivano da Firenze e che la spedizione non era partita da Volterra, ma da un comune limitrofo, su istigazione di un certo prof. Fanciulli[4].
Il 13 maggio venne assaltata la sede socialista di Montieri, con imposizione della consegna della bandiera ed esportazione di quadri, mentre il giorno prima nelle frazioni di Gerfalco e Travale si erano verificati incidenti a danno dei socialisti, con devastazione della sede del loro partito. Per tali episodi erano stati denunciati i fascisti Causerino, Luigi Carducci e Giovanni Barbini[5]. Ai primi di giugno la città di Grosseto appariva tranquilla, mentre in provincia i fascisti raggiunsero Giuncarico e si impossessarono, senza alcuna resistenza, delle bandiere rosse delle varie associazioni; il 7 giugno a Follonica l’ex tenente Dino Castellani tenne un comizio senza incidenti. A partire dalla seconda metà di giugno del 1921 i fascisti forestieri fecero la loro comparsa nel capoluogo maremmano, perché in città era nata una sezione ai primi di maggio ad opera di Giuseppe Saletti e Ivo Andreani. Secondo Aristeo Banchi “Ganna”, a fondare il fascio grossetano sarebbe stato un ex ardito di guerra, legionario dannunziano, Giuseppe Adami, all’inizio del 1921[6]. La sezione aveva un esiguo numero d’iscritti: solamente 26[7]. Fra i fascisti forestieri era presente il già citato fiorentino Dino Castellani, un violento ritenuto responsabile di numerosi omicidi. Tra il 27 e il 28 giugno Grosseto fu teatro di furiosi scontri: fu ferito il fascista capitano Petri e gli squadristi uccisero l’operaio edile Cesare Savelli, che dal tetto di una scuola si difendeva lanciando mattoni sugli aggressori. Infatti, alle ore 19 del 27 giugno, erano giunti da Firenze una decina di fascisti, la cui presenza aveva allertato un gruppo di comunisti. I primi diverbi avvennero presso Corso Carlo Alberto e presso l’albergo Bastiani, dove un fascista fu ferito con colpo d’arma da taglio e soltanto l’intervento della forza pubblica poté evitare il peggio, che fu solo rinviato al giorno successivo, quando da Firenze giunsero altri 18 fascisti agli ordini dell’ex tenente Castellani, protagonisti di scontri a fuoco nei quali “rimasero feriti sette individui del luogo di cui uno è morto, uno versa in stato gravissimo, tre prognosi riservata e due piuttosto leggermente[8]”. Vennero identificati 27 fascisti e imposto loro di ripartire, mentre in città e nelle campagne circostanti gli antifascisti attuarono rappresaglie verso individui ritenuti nemici.
Mentre si consumavano tali violenze, due dipendenti della Fattoria Ricasoli si recarono a Siena per ottenere il sostegno del fascio di quella città, cosa che avvenne immediatamente. Giorgio Alberto Chiurgo, segretario del fascio senese, ordinò la mobilitazione degli squadristi di Chiusi, Palazzone, Sarteano, Montepulciano, Pienza, Rapolano, Sinalunga, Chiusdino, Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio, Montalcino, Sant’Angelo, Torrenieri, Asciano, Chiusure, Monticiano e altri si aggiunsero da Cecina, Orvieto e Bracciano. Il prefetto Boragno aveva telegrafato ai suoi colleghi toscani affinché impedissero la partenza dei fascisti verso la Maremma, ma gli era stato comunicato che ormai la partenza era avvenuta da Siena e da altre località. Alle 2 del pomeriggio del 29 giugno circa 150 fascisti provenienti da Siena si erano accampati fuori le mura cittadine, perché Grosseto era presidiata dalle forze dell’ordine e dai militari e non era assolutamente consentito l’accesso. Fu a questo punto che alcuni antifascisti scavalcarono le mura e, cantando inni fascisti, riuscirono ad avvicinarsi a un gruppo di squadristi senesi. Costoro si accorsero del tranello solo dopo che un colpo d’arma da fuoco aveva ucciso il camerata Rino Daus. Boragno, giunto per svolgere opera persuasiva, asserì che un fascista veniva ucciso con un colpo d’arma da fuoco “da gruppo sovversivi che recossi incontro a nucleo fascista che riposava nei campi attigui alla città qualificandosi fascisti ed emettendo grida fasciste. Uccisore veniva però subito arrestato[9]”. Seguirono scontri fra antifascisti e forze dell’ordine con vari feriti, mentre il numero degli “italianissimi” fuori le mura era raddoppiato, raggiungendo le 300 unità, in attesa di nuovi arrivi. La situazione era gravissima: dei rinforzi richiesti erano giunti solamente 50 carabinieri reali, mentre, secondo la prefettura, ne erano necessari almeno altri 100. La premeditata aggressione alla città di Grosseto, rafforzata dalla sete di vendetta per l’uccisione di Rino Daus, si consumò nella notte fra il 29 e il 30. Secondo la versione del prefetto Boragno, dopo un colloquio che si rivelò inutile, verso le 3 di notte, almeno 600 fascisti “vincendo viva resistenza forza pubblica”, invadevano il capoluogo maremmano divisi in squadre. Fu devastata la Camera del Lavoro, la sede del giornale socialista Il Risveglio e un locale frequentato abitualmente dai comunisti. Stessa sorte toccò al Circolo Ferrovieri di via Recondita, completamente distrutto, con successivo incendio dei mobili, alla sede della Cooperativa dei badilanti e a quella dei terrazzieri. Secondo quanto riferisce Boragno, la forza pubblica non riuscì a impedire le violenze, né a identificare i responsabili, a causa dell’oscurità e per la rapidità delle azioni. I fascisti violarono le abitazioni dei più noti esponenti socialisti e comunisti: Aldo Pistolozzi, Orsino Conforti, Gino Valdambrini, Fiorino Fiorini e Antonio Ferrini, distruggendo ovunque. In particolare era stata invasa e derubata l’abitazione dell’Onorevole Grilli, devastato il suo studio legale e quello dell’avvocato Saracinelli, con asportazione di libri e documenti incendiati nella strada. A questi atti vandalici si aggiunse quello a danno di un negozio di armi e biciclette di proprietà del socialista Curzio Cipriani, da cui furono rubate 6 biciclette, una delle quali spedita a S. Romano, in provincia di Firenze. Infine i fascisti entrarono nel palazzo comunale dove esposero il tricolore. Il giorno successivo, dal momento che non erano reperibili il pro-sindaco e gli assessori, Boragno aveva nominato commissario prefettizio il Cav. Speroni, che si era subito insediato.
Secondo il prefetto di Grosseto, negli scontri ci fu un morto e 10 feriti e il giorno successivo altre 7 persone colpite da corpi contundenti si erano recate in ospedale. Uno dei feriti era morto. In tutto questo il prefetto più volte ribadisce l’impegno della forza pubblica per identificare i fascisti, che a suo dire spararono verso i carabinieri reali, fortunatamente senza conseguenze[10]. Vittime dell’aggressione alla città di Grosseto furono i giovani comunisti Angelo Francini, Giovanni Neri e Arcadio Diani, mentre dell’uccisione del senese Rino Daus venne accusato il fabbro Sante Ceccaroli sulla base di deboli prove, che poi si rivelarono infondate. Ceccaroli fu catturato, picchiato brutalmente e incarcerato. Rimesso in libertà qualche tempo dopo morì, innocente, per le conseguenze delle percosse subìte[11].
Il giorno successivo non sono segnalati particolari incidenti a Grosseto. In città si tiene un comizio fascista con suoni e canti patriottici e poi circa 400 “italianissimi” lasciano la Maremma. Nei dintorni si verificano aggressioni a Istia d’Ombrone, con il ferimento di due persone, mentre a Batignano e Montorsaio i fascisti pretesero la consegna delle bandiere delle leghe socialiste.
La versione dell’Ispettore Generale di P.S. Paolella
Il fatto di maggior rilievo fu, il 30 giugno 1921, l’arrivo a Grosseto dell’Ispettore Generale di P.S. Paolella, inviato dal Ministero per indagare sui fatti di Grosseto. Egli asserisce che la sera del 30 giugno si trovavano a Grosseto centinaia di fascisti provenienti da varie province della Toscana, armati di fucili e munizioni, specie i fiorentini. Essi erano particolarmente eccitati per gli scontri che avevano provocato, al mattino, la morte di 4 comunisti e un fascista. L’Ispettore di P.S. Paolella aveva notato come “le squadre si aggiravano in aria spavalda ostentando possesso armi senza trovare alcuna opposizione malgrado rilevante forza pubblica presente[12]”. Paolella stigmatizza le incertezze e la debolezza dell’autorità pubblica, perché addirittura erano stati rilasciati i fascisti arrestati, compreso uno trovato in possesso di un pugnale, arma restituita nel momento in cui veniva rimesso in libertà. Paolella punta l’indice contro l’Arma dei Reali Carabinieri, la cui azione fu “deplorevole tollerante. Ufficiali avevano apertamente dichiarato proposito di non affrontare fascisti per non avere conflitto e militari palesemente simpatizzarono non intervenendo per impedire violenze e spesso furono visti con loro associati […] fascisti poterono effettuare devastazioni per tale tolleranza e che vari di essi nelle perquisizioni abitazioni sovversivi furono seguiti dai Carabinieri che li attendevano allo esterno[13]”. Dopo gli scontri, la maggior parte dei fascisti se n’era andata ed era rimasto solo Dino Castellani, del Direttorio fiorentino, con la sua scorta: una decina di “italianissimi” in tutto in una Grosseto ormai espugnata.
La versione del Generale di Brigata dei RR CC Leopoldo Ferré
Con una lunga relazione del 3 luglio 1921, il Generale Ferré, del IV Gruppo di Legioni dei Carabinieri Reali di Firenze, informava il Comando Generale dell’Arma di Roma del comportamento dei militi in occasione delle violenze a Grosseto, dopo aver conferito con gli ufficiali del capoluogo maremmano, con il prefetto, il questore e con l’Ispettore Generale Paolella. Ferré riferisce quanto avvenuto nel capoluogo maremmano a partire dal 20 giugno, quando alcuni fascisti fiorentini erano giunti per fare opera di propaganda e fondare un fascio. Fino al 27 non era successo nulla di rilevante, ma quel giorno un ignoto comunista colpì con un pugnale un fascista fiorentino, il capitano Vincenzo Bentini. Ciò avrebbe provocato la reazione degli avversari e la loro richiesta di rinforzi e, il giorno 28, dopo una provocazione dei comunisti – così scrive Ferré – si accesero tafferugli e incidenti nel corso dei quali furono esplosi colpi d’arma da fuoco che uccisero il comunista Giuseppe Savelli, il quale, secondo il Generale, era anche lui armato di rivoltella. Il giorno successivo, 29 giugno, centinaia di fascisti, prevalentemente senesi e fiorentini, si accamparono fuori le mura cittadine e in tale contesto avvenne l’uccisione di Rino Daus. Secondo Ferré, un gruppo di fascisti che si trovavano già a Grosseto, s’incontrarono con un gruppo di comunisti, che li ingannarono gridando “EIA, EIA, ALALA’” e poi spararono uccidendo l’ex capitano degli Arditi Rino Daus. Fu immediatamente arrestato il comunista Sante Ceccaroli, ritenuto colpevole dell’omicidio e anche i fascisti Remigio Rugoni, per porto di moschetto Mod. 91, bombe a mano e pugnale, e Giovanni Tramontano, anch’egli per porto di moschetto austriaco, peraltro adoperato per colpire alla testa un avversario fermato dai carabinieri. I due “italianissimi”, assieme ad altri loro camerati arrestati, furono rilasciati subito dopo e fu tolta loro solamente la bomba a mano. Per evitare l’ingresso in città delle centinaia di fascisti in attesa fuori le mura, furono presidiate le due porte d’ingresso da circa 40 carabinieri, numero ridotto alla metà nella notte fra il 29 e il 30 giugno, per consentire un turno di riposo. Porta Nuova era presidiata dal Tenente Pietro Mossutti del Battaglione Mobile di Firenze e dal Capitano Giovanni Bavaresco della Compagnia di Grosseto, mentre “doveva dirigervi il servizio giusta l’ordinanza della Questura il vice commissario Dott. Di Giulio, che si assentò verso le 2,30 della notte”. Una decina di minuti dopo i fascisti, ben incolonnati, si presentarono a Porta Nuova e, con l’intenzione di entrare in città, presero a scavalcare i cancelli della barriera. Ferré asserisce che i carabinieri si schierarono in difesa per ordine del tenente Mossutti, ma il capitano Bavaresco intervenne per evitare scontri e “gravi conseguenze e ciò anche in base all’ordinanza della Questura che non voleva vi fosse conflitto della forza coi fascisti”. Così circa 600 fascisti, organizzati in squadre, ciascuna con il proprio obiettivo, devastarono la Camera del Lavoro, la tipografia del Risveglio, il Circolo Ferrovieri, il caffè Greco, per poi dirigersi verso le abitazioni dei “sovversivi” più noti, la maggior parte dei quali aveva lasciato la città. Gli scontri, che provocarono la morte dei comunisti Ancaro Diani, Angelo Francini, Giovanni Neri e il ferimento di una trentina di persone, si verificarono alla periferia della città. Intorno alle 5 del mattino del 30 giugno arrivarono da Roma 150 carabinieri del I° Battaglione Mobile, che non riuscirono ad accerchiare i fascisti, dato il loro numero elevato. Vennero accertate le responsabilità di almeno 50 fascisti, tutti deferiti all’autorità giudiziaria. Il Primo luglio quasi tutti gli “italianissimi” se n’erano andati. La città, come relazionò Ferré, “è ora imbandierata dal tricolore nazionale e la classe benpensante della popolazione, pur deplorando i dolorosi episodi verificatisi, nota che essi valsero ad abbattere la tracotanza comunista e vede con senso di soddisfazione l’emancipazione sua dal regime sovversivo”. Sul comportamento tenuto dall’Arma, il Generale non ha dubbi: essa ha agito conformemente alle direttive della Questura e Prefettura e se le violenze fasciste poterono compiersi, ciò dipese dal numero degli invasori e dalla sete di vendetta per il ferimento di Bentini e “la proditoria uccisione di Daus e dalla necessità di evitare – come da ordinanza – conflitto coi fascisti”. Rassicurati i superiori romani sulla situazione di Grosseto, dove il 3 luglio erano giunti altri militari del Battaglione Roma I°, Leopoldo Ferrè concludeva elogiando l’opera dei carabinieri: “Mi fu fatto cenno dal Prefetto e dall’Ispettore che qualche Carabiniere ha accettato sigarette dai fascisti ed ha salutato taluno di essi. Non ho elementi per accertare od escludere tale fatto che può dipendere da ciò che qualche carabiniere del Battaglione Firenze abbia conosciuto qualche fascista di quella città […], ma per ciò non si può indurre che vi sia movimento di simpatia verso i fascisti, lo debbo assolutamente e recisamente escludere […] poiché l’azione dell’Arma fu inquadrata da ordinanze di servizio della Questura […] ha agito senza falsi riguardi verso i fascisti come lo provano gli arresti dei fascisti Rugoni e Tramontano, i quali però furono fatti rimettere in libertà dal Prefetto. Dopo tale rilascio e la nota restrizione di evitare conflitti si comprende come l’azione dei funzionari di P.S. e degli Ufficiali dell’Arma non potesse svolgersi che con riserve imperniate sul concetto di evitare più serie conseguenze[14]”.
La versione di un fascista fiorentino sui fatti di Grosseto del 1921
“Era molto tempo che si parlava di Grosseto”. Inizia così l’articolo del fascista fiorentino che si firma con le iniziali M.P., apparso su “Il Bargello” del 27 ottobre 1934. “Lettere di sfida, di scherno inviate dai comunisti grossetani ai vari Fasci della Toscana invitavano a visitare la “rossa” ove sarebbero stati, i Fascisti, accolti con ogni riguardo. Varie volte si era pensato a raccogliere il gentile invito ma ardua appariva l’impresa”. Grosseto è infatti una città rossa: “Sciolti i combattenti, e di un rosso acceso il Comune, la Provincia, persino scarlatto era il rappresentante della forza pubblica, il Sig. Commissario, che aveva dato pubblicamente nelle ultime elezioni il voto ai comunisti”. Così, a metà di giugno, in Piazza Ottaviani, si cominciò a parlare di una spedizione che avrebbe coinvolto un numero limitato di squadristi e dopo una riunione fra il segretario regionale e i comandanti delle squadre d’azione, fu decisa l’impresa, a cui avrebbero partecipato “a scaramanzia tredici […] prescelti. Tredici disperati, tredici pellacce, come allora si diceva, che non avevano paura né del Padre Eterno né del Diavolo”. I tredici fascisti partirono da Pisa, armati, fra l’altro, di bombe a mano, “otto rotonde Sipe”. Arrivati a Grosseto furono fatti accomodare in una sala d’aspetto dal Commissario, “quello rosso (era rosso anche di pelo), per proteggerci, diceva lui, con carabinieri alla porta; ma questo luogo non confacendo alla nostra salute, ben presto rimase deserto, favoriti dagli stessi carabinieri, nei quali vivo era il ricordo di due loro compagni caduti due giorni prima in un agguato”. Raggiunto l’Albergo Bastiani, i tredici seppero del ferimento di un loro camerata fiorentino, facente parte di un gruppo che da Foiano della Chiana, anziché dirigersi a Firenze, aveva raggiunto Grosseto il giorno prima, quando si era scontrato con alcuni comunisti. Venuti a conoscenza dei fatti, i fascisti, la maggior parte dei quali appartenevano alla “Disperata”, distribuirono armi e munizioni e agli ex arditi le Sipe. Immediatamente si accesero gli scontri: “Ci sparavano dai tetti, dalle finestre, dalle porte socchiuse, vere raffiche di colpi. E la battaglia dalla piazza lentamente si propagò per le vie adiacenti tra il crescendo degli spari […] quando avemmo il tempo di guardarci attorno tre comunisti giacevano a terra. Dei nostri due feriti leggeri”. Fu solamente una pausa, perché a un certo momento “un carabiniere di corsa ci venne incontro avvertendoci che i comunisti della S. Giorgio Ansaldo, abbandonato il lavoro, si apprestavano a venirci incontro. Si allontanò di corsa lungo il muro, e noi ci dirigemmo a Porta Nuova verso la S. Giorgio Ansaldo. Ormai eravamo lanciati. Sfasciato tra urli e revolverate il famoso Caffè Greco, al giardino, nei pressi di Porta Nuova, ebbe luogo la seconda battaglia. Lo scontro durò più di mezz’ora. I comunisti, barricati dentro al palazzo in costruzione delle scuole normali, sparavano ai fascisti che a loro volta rispondevano riparati dietro a un cumulo di pietre da costruzione. Dopo un po’ ebbero la meglio gli “italianissimi” e gli avversari si videro costretti a lasciare l’edificio “lasciando sul terreno altre vittime, tra le quali il capolega dei muratori, colpito mentre saltava una finestra. Le scariche dei carabinieri sopraggiunti, valsero a far crollare definitivamente le ultime resistenze”. A seguito di questa secondo scontro, i fascisti ritornarono presso l’albergo e poi, su invito del vice-prefetto e del capitano dei carabinieri, lasciarono la città diretti a Montepescali e da lì a Livorno. L’obiettivo era stato raggiunto: “Secondo il piano prestabilito, i nostri incidenti provocarono il concentramento dei Fasci Toscani attorno a Grosseto. Il treno che prendemmo nella notte si popolò di squadre dei paesi lungo la linea. Ma l’alba rosata di Grosseto ci recò la notizia della triste fine di Rino Daus”. Il fascista M.P. racconta l’aggressione alla città successiva alla morte dello squadrista senese, una devastazione che “durò tre giorni, mentre affluivano da ogni parte le squadre … Poi lentamente la smobilitazione. Ormai Grosseto era ripulita e ripulita a dovere[15]”.
Franco Dominci & Giulietto Betti
NOTE
[1] Archivio Centrale dello Stato, busta 98, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., lettera del prefetto Boragno del 4 marzo 1921.
[2] Archivio Centrale dello Stato, busta 98, Ministero dell’Interno, D.G.P.S, Telegramma del prefetto Boragno del 4 marzo 1921.
[3] Archivio Centrale dello Stato, busta 98, Ministero dell’Interno, Telegramma del Ministro Giolitti, Ufficio Cifra, 27/4/1921, n. 9807.
[4] Archivio Centrale dello Stato, busta 98, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., Telegramma del prefetto Boragno del 7 maggio 1921 n. 534; telegramma del prefetto di Pisa De Martino dell’11 maggio 1921 n. 17.934.
[5] Archivio Centrale dello Stato, busta 98, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., Telegramma del prefetto Boragno del 3 giugno 1921 n. 20.964.
[6] Aristeo Banchi “Ganna”, Si va pel mondo. Il Partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, collaborazione di Claudio Carboncini, Effigi, 2014, pag. 23. Il primo fascio in provincia di Grosseto venne fondato a Ravi dal Capitano Umberto Maino all’inizio di gennaio del 1921.
[7] Il Risveglio, 15 maggio 1921
[8] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., busta 98, telegramma del prefetto Boragno del 28 giugno 1921 n. 24.137.
[9] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., busta 98, telegramma del prefetto Boragno del 29 giugno 1921 n. 24.279.
[10] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., busta 98 telegrammi del prefetto Boragno del 30 giugno 1921 n. 24.341 e 24.454 e telegramma del I luglio 1921 n. 24.582.
[11] Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, Grosseto 1985, pag. 49.
[12] Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, D.G.P.S., busta 98 telegramma dell’Ispettore Generale di P.S. Paolella del 3 luglio 1921 n. 24724.
[13] Ibidem
[14] Archivio Centrale dello Stato Ministero dell’Interno, D.G.P.S., busta 98, relazione del 3 luglio 1921 del Generale dei CC. RR. Leopoldo Ferré, del Comando del 4° Gruppo di Legioni dei Carabinieri Reali di Firenze al Comando Generale dei Carabinieri Reali di Roma, in risposta al telegramma del I° andante n. 4254.
[15] Archivio Giulietto Betti, Violenze fasciste 1920-1924, Il Bargello, anno VI, n. 43, Firenze 27 ottobre 1934, La spedizione di Grosseto, di M. P.
Thank you for the sensible critique. Me and my neighbor were just preparing to do a little research on this. We got a grab a book from our area library but I think I learned more from this post. I’m very glad to see such wonderful information being shared freely out there.
Bella storia ma lunga… bella
Bella storia ma lunga…