Finalmente un altro giro di giostra in tutta la Maremma, l’uva è matura e tante sono ancora le famiglie che vendemmiano i propri raccolti e producono il vino nella propria cantina. Il nettare degli dei viene prodotto ancora coi metodi antichi, che gli etruschi 3000 anni fa avevano scoperto e fatto apprendere a tutto il mondo allora conosciuto. Ma produrre il vino è un’arte tutta italiana, e in particolare nella terra del tufo, dove il terreno vulcanico dona ai vini un sapore tellurico, magmatico. Così come unica è la preparazione e la conservazione, eseguite sempre sottoterra, nelle migliaia di cantine nel tufo, dotate di clima costante per tutto l’anno. La vendemmia, i pranzi all’aperto, le fraschette, l’odore di mosto, i bicchieri in compagnia, la bollitura del vino, la torchiatura, ancora ai giorni nostri si fanno alla vecchia maniera, mantenendo vivo il folklore che circonda uno dei prodotti più importanti del centro Italia. Abbiamo voluto raccontare il periodo della svinatura nelle parole di Mario Puccini, un autore molto particolare, di impronta verista, legato profondamente per tutta la vita alla Maremma, sua terra di adozione, avendo sposato una donna di Ischia di Castro. Dopo aver raccontato la primavera (sul nuovo corriere del tufo di aprile 2017) nelle parole di Mario Puccini, stavolta riportiamo l’autunno, caratterizzato dall’odor di vino e dal fresco delle cantine in tufo. La novella, apparsa nel 1935 sulla terza del quotidiano “Il Roma” di Napoli, viene qui riproposta nella sua interezza.
Se le cantine sono piene, gonfie di tini e non si sente in giro che un acre odor di mosto; e su ogni finestra, su ogni balcone, su ogni canto di strada larghe tavolate di fichi stanno seccando. Nessuno, proprio nessuno. Ora, qua il paese con la sua gente, di là la campagna; ed è come se non ci siano rapporti tra questo e quella; come se ciascuno sempre sia stato per proprio conto, la campagna con le sue robe e bellezze, il paese con le sue faccende e con i suoi pensieri. Sere lunghe di fine ottobre: che ritornano tutti gli anni e che tutti gli anni sembrano come nuove, perché la gioia non è come il dolore che a tratti si sa far ricordare, la gioia ha tal forza da sembrare, ogni volta che riaffiora nel cuore degli uomini, una cosa nuova del tutto. Ed ecco, la luna spande la sua luce, ma non la vede poi stagnare gelida e morta in queste sere tarde e molli. Ci sono tante persone che si muovono, tale è il via-vai per i vicoli che pare che essa si sia allungata fin quaggiù proprio per aiutare la festa a renderla più gaia. Con tutto questo, le cantine sono ricche di lumi; la luce della luna va bene per le strade che ci si può camminare come di giorno, ma i luoghi chiusi hanno bisogno di qualcosa di più sfacciato, la contentezza chiede molta luce, non si può essere allegri sotto una luce insufficiente. E poi i paesi di Maremma sono magari piccoli, le loro case sono tutte ad un piano, le camere, quattro pareti strette strette, difendono intere famiglie, ma le cantine sono grandi come saloni, non c’è nessun paese del mondo che abbia le cantine che si vedono qui. Perché il vino è uno dei maggiori prodotti agricoli del luogo, ma anche perché le case sono costruite sul tufo; e il tufo è arrendevole, chi vuole spazio, lui si lascia rompere ed aprire finchè all’uomo piaccia. Grotte che non finiscono più; e non c’è bisogno di tetti di sostegno, una volta operato lo sventramento, il tufo si ferma e non c’è pioggia o giuoco d’acque sotterraneo che lo faccia cedere o smottare. E la cantina mentre diventa il luogo dove ogni anno il sole feroce della Maremma viene a trasformarsi e ad addomesticarsi nel biondo liquore che sa offrire anche l’ebbrezza torbida, ma che più che tutto concede una sana e nobile forza a chi lavora e suda, diventa anche grazie alla sua vastità, un luogo di ritrovo cordiale, una sorta di sala-convegno per chi vuol passare, dopo le ore di fatica, qualche minuto di serena allegria. Infatti nell’estate sono freschissime queste grotte e nell’inverno, al contrario, calde come cucce. E qui si vengono a far merende, qui si porta il forestiero di passaggio, qui si scende ad imbastire un affare che per le strade alla luce del sole o nelle case troppo chiuse forse non si riuscirebbe ad imbastire. S’inseguono ombre nella notte imminente: i vicoli animati come se fosse giorno sembrano più grandi del solito, a tratti il movimento ed il chiasso sono tali che non pare di essere in un paese, ma in qualche vicolo d’una grande città: uno di quei vicoli di raccordo dove la gente insolitamente affluisce tutta in qualche giorno di festa per abbreviare il cammino e raggiungere al più presto le vie e le piazze maggiori. Lumi a mano e lampade elettriche fuori dalle porte. Voci, dialoghi, ma anche molta fretta: “svinate stanotte anche voi?, no, vo solo a vedere se ha fatto qualche mossa”. “L’abbondanza è sempre nemica della qualità, ma quest’anno pare di no, io ho svinato ieri sera la prima tina, stasera svino la seconda, se venite ad assaggiare un bicchiere, mi direte se sbaglio, ma metto la mano sul fuoco che non avrò manco una botte fiacca, quest’anno”. Le donne che di solito stanno in casa, in queste sere, fanno anche loro una capatina nella cantina, e i bimbi, dietro, “due dita di mosto fanno bene anche ai ragazzi”. E gli uomini che di solito quando lavorano non vogliono gente intorno, in queste sere della svinatura dove è impegnato a fondo il loro amor proprio, gradiscono visite non solo di quelli di casa, ma di chiunque. E’ anzi una consuetudine invitare coloro che passano davanti alla cantina, e per chi non gradisce il mosto, ecco la bocca letta del vino vecchio; chi non si contenta solo di bere non mancano, avvolti in un tovagliolo di bucato, la pagnotta fresca ed una grossa forma di cacio pronte ad essere mangiate. E così per dieci, dodici, quindici sere, finchè la luna non ha più la sua bella faccia tonda dei primi giorni, ma s’è ridotta ad una faccettina appena: e la notte non la lascia li che per pochi minuti a guardare il bello del mondo perché le sue ombre hanno una gran fretta di pigliar loro il suo posto; e lei, brilla quanto più può in quel buio , ma poi ad un bel momento sparisce.