Uno sfiorare del campanello. Aprii la porta in quel mattino dell’estate 1973. Sulla soglia era “Lei”, la cugina, ospite dei miei suoceri nell’appartamento di fronte. La invitai a entrare. La donna, sessant’anni, ricordava una bellezza lontana e sofferta.
Le feci strada. Ci sedemmo nel salotto. Una dinanzi all’altra. “Lei” si guardò appena attorno, come a prendere confidenza con le cose. Poi gli occhi balenanti di una luce antica, dentro i miei: “Tu sai chi sono?”. “Si”, risposi con voce tenera e sicura.
Affermò che prima di ripartire per Roma, avrebbe voluto raccontarmi la sua storia. “Ora!”, risposi decisa. Accolsi la sua mano attraversata da evidenti vene bluastre. Tremava. Le parole scorrevano con l’intensità di un vissuto recente, pulsante. Un dolore mai ammansito, una gioventù percorsa dalla grigia quotidianità del paese. La madre, il padre, la sorella maggiore si muovevano come figure inscindibili nello scandire dei suoi passi. A “Lei” pesava la sorveglianza cui, negli anni ’30 del Novecento, era sottoposta una “ragazza da marito”.
Un temperamento vivace, un corpo sinuoso e scattante, gli occhi sempre ridenti: due finestre sul volto. E i capelli… irrequieti, spesso frenati con fermagli lucenti di falsi brillantini. Un giorno i suoi occhi s’incontrarono con quelli di un giovane miliziano. Anche lui mancianese.
Stava appoggiato a uno stipite di marmo, sulla soglia de “Le Stanze”, Circolo ricreativo della borghesia, requisito per divenire Casa del fascio. Un atteggiamento di quieta attesa. Una sigaretta fra le dita sfiorava appena le labbra. I capelli biondi, corti, s’innalzavano sulla fronte piana. Sembrava aspettarla. Fu l’inizio di un rapporto segnato, dapprima, da intensi attimi fuggenti. Poi il fidanzamento, con la naturale conseguenza promessa di matrimonio. Questo era lo spirito del tempo.
Non fu così. La mente di “Lei”, cristallizzata in una specie d’incantesimo, si trovò improvvisamente di fronte alla realtà. “Lui” spezzò la promessa. Non solo… Ogni momento della loro storia, il più intimo, il più riservato, divenne motivo d’immonde battute, del risolino beffardo dei suoi compagni. Il padre di “Lei” era deriso dal “Miliziano” nelle bettole, nelle “frasche” che si aprivano lungo il tracciato delle antiche mura: Borgolungo. Si ribellava il padre, chiedeva, implorava rispetto per quella figlia, per l’altra… per la sua famiglia. Le brutali minacce del capo della Milizia, o meglio “Guardia armata della rivoluzione”, costituirono una decisa promessa di pesanti conseguenze. Pesava senza dubbio la sua malcelata fede socialista.
La foschia della vergogna penetrò nelle stradine in cui abitava “Lei”. Salì le poche scale che conducevano al “balzolo”, entrò nella casa modesta, vagò nelle stanze lasciando tracce. Grumi densi sembravano innalzarsi come figure sordide: comari sghignazzanti sulla sorte della ragazza.
Tarda sera. Esce il padre per recarsi, il cuore e le mani di ghiaccio, nel piccolo laboratorio di ciabattino, adiacente alla casa.
Si avvicina al deschetto. Fra i chiodi, perfettamente divisi per misura nei piccoli scomparti, le bullette, le “mezzelune” e i logori utensili del mestiere, sembra vibrare, di una luce invitante, il tricetto nuovo, affilatissimo fino all’impugnatura. Il padre si muove cauto nel buio della sera di un autunno inoltrato. Conosce il percorso che il “Miliziano” traccerà per tornare alla casa dove vive con la madre. Lo aspetta nell’ombra densa di via Torta. Potente giunge, nel silenzio, il ritmo cadenzato degli stivali. Si scioglie attorno al ritornello che il fischiettare rimanda: “… Perché portiamo la camicia nera hanno detto che siamo da galera, hanno detto che siamo da galera”. Il padre è ora dinanzi a “Lui”… Fulmineo sferza, dal basso ventre verso l’alto, uno… due… tre colpi di trincetto. E ancora la mano non si ferma. La ragione è inghiottita dal baratro della vendetta: il giovane è trafitto per venti volte (la camicia nera che indossa, tragica reliquia, ne porterà il segno finché il tempo non cancellerà le tracce). Sono le 21,30 del 15 novembre 1931, anno X dell’era fascista. “Lui” aveva 21 anni.
L’ex convento di Gazia protesse per pochi giorni il padre fuggiasco.Nella mia anima avida di conoscere e narrare storie vissute, raccolte e coltivate si è eretta, come su uno stelo, la storia di “Lei”.
Ho messo in fila una quantità di parole per innalzarla su una quotidianità distratta da voci pallide che restano smozzicate nel dialogo frettoloso, si accasciano abbreviate nei telefonini, scompaiono, sostituite dai disegni di Facebook, s’irrigidiscono come soldati nelle interrogazioni d’esame. Ho preso lo stelo con il fiore ancora stillante di pianto e ho portato “Lei” nel suo paese, fra la sua gente, per cercare di capire meglio insieme cosa stia accadendo agli uomini che uccidono le proprie donne. Quelle donne che, nonostante il correre della civiltà, continuano a essere vessate, aggredite perfino con l’acido, arse vive. E tante, di cui non sappiamo, accettano ancora di subire, in silenzio… ad aspettare il cambiamento. pur vero che nella “sua” storia è il “Miliziano” a essere ucciso. No, non solo! La violenza che a “Lei” era stata inflitta fu morte. Morte civile: morte senza cadavere. Emarginazione sociale, fuga… Napoli… Roma. Esilio. Miseria. Il sepolcro dei suoi 18 anni. Vedo nel nostro tempo un uomo annebbiato da quella stessa visione fascista della mascolinità malintesa, che “Lei” ha vissuto. Fatta di superiorità muscolare, obbligo di possesso. Rifiuto: una gestione illimitata della donna. Ancora solo donne mogli e madri?
Accade che oggi gli uomini si debbano relazionare a donne economicamente indipendenti, donne istruite e forti. Enorme è lo squilibrio in una società che ancora considera l’uomo il genere dominante, quando poi l’esperienza individuale lo delude e lo logora. La sola arma per riscattare le generazioni future dal viscido marciume fascista è una capillare opera di educazione a casa, a scuola, nei luoghi di aggregazione. Fin dalla più tenera età.
Franco Dominici