“Sant’Antonio a lo deserto cucinava le spaghette, Satanasso sto fetente glie freghette le forchette, Sant’Antonio nun se lagna cò le mano se le magna!!”
“Filastrocca popolare”
Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato. “Lettere di Sant’Antonio Abate”
Questi due anni di pandemia stanno lasciando pesanti conseguenze su tutti gli strati del tessuto sociale. Gli effetti delle quarantene, delle numerose limitazioni quotidiane, dagli scambi di abbracci alle manifestazioni condivise stanno minando rapidamente un costrutto sociale presente da millenni sul nostro territorio. Va però evidenziato che la situazione era già irrimediabilmente compromessa, in quanto la civiltà dei consumi da decenni aveva indebolito il cuore pulsante delle feste popolari. A questo livellamento culturale hanno resistito solo alcuni eventi, tramutati progressivamente in mera consuetudine, o in molti casi divenuti attrazioni per turisti, ma dalle quali è stato svuotato il sub strato cultuale. Dopo l’epifania la prima festa dell’anno che fonde sacro e profano, cristiano e pagano è quella di Sant’Antonio Abate. Essa ricorre tra la notte del 16 e il giorno del 17 gennaio, con la benedizione degli animali e con l’accensione di fuochi un po’ in tutte le contrade d’Italia, tra peculiarità e varianti territoriali. In particolare nell’Alta Tuscia la festa di S. Antonio è ancora molto sentita in tutti i borghi. Benedizione di animali, cortei di gente a cavallo, vino, panini colla porchetta e gli immancabili focaroni. Primo su tutti il paese di Onano, dove si accende il fuoco a mezzanotte, e poi carri allegorici, la mangiata sociale, la banda che suona, le maschere, i botti. Un evento da non perdere, che mantiene ancora oggi il dualismo tra cristianesimo e paganesimo, tra istinto e religione. La storia del Santo fu tutt’altro che avventurosa: è stato tra i primi eremiti riconosciuti dalla Chiesa Romana ed è considerato il primo Abate della cristianità. La sua vita è stata trascritta da Sant’Anastasio, che ne ha fatto uno degli araldi della Chiesa Universale. Nato sulle sponde del Nilo, in Egitto, ben presto si dedica alla solitudine del deserto, presso il Mar Rosso. Pratica la vita monastica per ottanta anni in attesa di rendere grazia a Dio, da ultracentenario, nel suo eremo sul monte Colztum. Ma la sua vita continua molto più a lungo dopo la morte, dacché le sue spoglie hanno viaggiato per tutta la cristianità, da Alessandria a Costantinopoli fino in Francia. I suoi resti sono divisi in giro per l’Europa, dalla francese Motte-Saint-Didie fino a Tricarico in Puglia. Durante il suo lungo esilio monastico pare che in molti si recassero da lui per consigli di salvezza (compreso forse l’imperatore Costantino). Solo in due occasioni lascia la solitudine del suo ascetismo: una volta per dare il suo appoggio al Concilio di Nicea, l’altra ad Alessandria per confortare i cristiani perseguitati e appoggiare l’eresia Ariana. Sant’Agostino ne parla come una figura molto seguita e rispettata in vita così dopo la morte. Certo, il racconto di Sant’Anastasio è squisitamente cristiano, e si sofferma non poco sui rapporti del Santo col Demonio. Le tentazioni di “Satanasso” ai danni del vecchio anacoreta nel deserto sono celeberrime. Mentre il fuoco legato al suo culto ha a che fare con la discesa di Antonio all’inferno per contendere al demonio le anime dei dannati. Questa è la versione cristiana della questione, ma come spesso accadeva, soprattutto nella profonda Etruria di 2000 anni fa, le agiografie cristiane venivano sovrapposte ai precedenti culti pagani, con l’intento di sradicare questi ultimi dalla memoria popolare. Ne elenchiamo solo alcuni: San Giuseppe a Pitigliano, Santa Cristina a Bolsena, la Barabbata a Marta, il Solco dritto a Valentano, i fuochi nella notte di San Giovanni, il Corpus Dominii o il giorno dei Morti. Ricorrenze situate in precisi giorni dell’anno, in prossimità di Solstizi ed Equinozi o in giorni cruciali a livello astronomico. Ma tornando al 17 gennaio e alla festa di Sant’Antonio Abate, trattiamo un periodo che dal solstizio d’inverno porta all’equinozio di Primavera. Il Carnevale, la Candelora, la Quaresima e le Ceneri sono cadenze cristiane che riportano a radici più remote, giacché da sempre siamo stati carne e al contempo spirito. Sant’Antonio ad esempio incarna la benedizione degli animali e il rito del fuoco, presenti in tutto il mondo antico proprio nello stesso periodo. A Roma in fine gennaio si officiavano riti di purificazione per uomini, terra e animali, così da ringraziare le divinità che regolavano il ciclo delle stagioni. Certo, è molto strano che un Santo Eremita Egiziano vissuto tra il deserto e un eremo sul Mar Morto sia stato accostato e posto come protettore nelle festività rurali in terra italica. Una pratica da riassumere nella consueta e precisa strategia della chiesa romana di sovrapporre entità cristiane su precedenti culti pagani della Madre Terra, conservandone però i tratti fondamentali. Sono centinaia i siti etruschi: vie cave, necropoli, pievi, altari e punti marcatori a noi noti con il toponimo di S. Antonio. Spesso si inserivano le effigi del santo al posto di quelle precedenti, dopodiché si procedeva a inculcare i nuovi dogmi (con le buone o con le cattive). E comunque a 2000 anni di distanza ancora si riesce a scorgere l’eco di quegli antichi rituali. Perché poi Sant’Antonio viene associato ad un maiale? Inizialmente si trattava di un Cinghiale, accostato soprattutto alla divinità romana Cerere, alla quale si consacravano proprio i cinghiali e i maiali. A Cerere si officiavano i riti di purificazioni di sementi, stalle e animali proprio a fine gennaio. Va detto comunque che allora per la Chiesa Romana, discendente diretta del costrutto religioso ebraico, il maiale era visto ancora come l’incarnazione del demonio. Allora perché Sant’Antonio viene ritratto con in braccio un maiale? Nei secoli bui del medioevo accadeva spesso che scoppiassero delle epidemie, spesso molto gravi, che rapidamente si propagavano in tutte le contrade. È il caso dell’herpes zoster, anche chiamato fuoco di Sant’Antonio. Esso proveniva da certi funghi presenti nella segale con cui si faceva il pane. Ben presto la soluzione a questo pesante morbo, così grave che nel versare acqua sulle piaghe si otteneva un bruciore insopportabile, fu curato per grazia del Santo barbuto. Ben presto i monaci di Sant’Antonio fondarono numerosi ospedali un po’ ovunque, e per curare le piaghe veniva usato il grasso di maiale. L’ordine ottenne addirittura il permesso del Papa di allevare maiali a spese della comunità. Infatti durante il medioevo il culto di sant’Antonio fu reso popolare soprattutto per opera dell’ordine degli ospedalieri, da egli ispirato. In genere l’effige ritrae il santo ormai anziano, mentre scuote un campanello, come facevano appunto gli Antoniani, in compagnia di un maiale, dal quale estraevano il grasso per preparare emollienti da spalmare sulle piaghe. Il bastone da pellegrino termina con una croce a forma di Tau, che i monaci portavano cucita sul loro abito (thauma in greco rappresenta stupore, meraviglia per il miracolo). Il Tau però rappresenta anche l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, con evidente rimando alla sorte, al destino. Tracce dell’ordine di Sant’Antonio sono ancora rinvenibili anche nella Maremma del Tufo. In particolare nel centro storico di Pitigliano in via Zuccarelli è ancora identificabile l’Ospitale di S. Antonio, forse il primo e per molto tempo unico presidio ospedaliero del paese. Vi è anche una cappella intitolata al Santo, a confermarne il legame con l’ordine che lo gestiva. Sopra l’architrave di ingresso vi è incisa un’epigrafe: “Miser chi speme in cosa mortal pone” (Petrarca, Trionfo della Morte). Comunque una cosa è certa: dopo lunghi millenni senza interruzioni, siamo ormai al secondo anno consecutivo senza festeggiare S. Antonio. Speriamo che lo nemico de lo demonio non se ne avveda, anzi, possa intercedere per farci uscire da questa mala tempora..