Quando sono nato 2020 era una data della fantascienza, sulla quale si innestava un’idea di futuro ancorata a Verne, a Odissea 2001, al mondo dopo la discesa sulla luna. A quello mio nonno non credeva, lui la luna la osservava in rapporto alla natura, alla campagna, ai cicli femminini. Era in fondo un totem di una civiltà che gradatamente si proiettava su un tempo lontano che è oggi, che è il nostro. I paesi cantavano di prima mattina e il vocio si fondeva con i rumori della natura in un tutt’uno. Dalla partenza dei pullman a buio, ai bar, agli esercizi commerciali e poi gli uffici, le scuole; in un flusso che era prima il giorno, poi la settimana e i mesi… gli anni correvano al ritmo dei jukebox, delle discoteche, del calcio di provincia, degli ultimi cinema prima delle multisala.
Il mondo cambiava e cambia ancora, da un medioevo prolungato come le nostre adolescenze che non vogliono tradursi in maturità. E il tempo scorre oltre il dissanguamento delle comunità minime, delle nostre periferie di campagna dove sembra più lungo e intenso, quando ancora sa riconoscere le stagioni perdute conducendole per mano. Una dopo l’altra, paese per paese, in questa dorata terra del tufo dove vivere è ancora dolce, se non ci prende l’ansia cittadina che ha fatto aumentare il traffico grossetano a dismisura. Allora godiamo delle ore più lunghe dei soliti 60 minuti, che solo qui si possono assaporare, inondate della bellezza potente delle mura di tufo su cui riflette ogni luce, delle vie nascoste e diluite nel letto impervio dei torrenti.
E la gente, autentica, come il fusto delle querce e degli olivi, come le traiettorie delle viti e dei templi dispersi. Qui tutto è magia, ogni foglia che s’alza al soffio di venti misteriosi che regolano la vita. Adesso siamo in attesa del risveglio nuovo… di una nuova primavera.
Mario Papalini