I libri Effigi su Manciano, Pitigliano, Sorano.

Briganti di Maremma

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Montauto

Nel 1843 il viaggiatore e scrittore inglese George Dennis raggiungeva per la prima volta Pitigliano e Sorano, dopo aver visitato le località etrusche del vicino Stato Pontificio. Nell’attraversare il confine con il Granducato di Toscana manifestò un certo timore, perché la strada “aveva una cattiva reputazione, perché questa zona si dice che fosse il rifugio di fuorilegge e briganti di entrambe gli stati ”. Rifugio di banditi già da secoli e fenomeno endemico, come ha recentemente scritto Valentino Fraticelli: “Territorio e situazione politica favoriscono l’accrescersi di un fenomeno endemico fino a determinarne le due esplosioni di fine Cinquecento”. Dopo aver illustrato la situazione politica della Maremma in età moderna – situazione che, dato il proliferare di contee e feudi fra l’Amiata e la zona costiera, con numerosi confini e frontiere, era il luogo ideale allo sviluppo e alla permanenza del brigantaggio – Fraticelli ne descrive la geografia: un’area scarsamente antropizzata, con vie di comunicazione quasi inesistenti, paludosa in prossimità del mare e con boschi fitti ed estesi al suo interno, pieni di grotte e anfratti naturali. Un territorio vasto, situato fra le due vie consolari: la Cassia e l’Aurelia. Fraticelli, che ha indagato accuratamente nell’Archivio di Stato di Firenze (Mediceo del Principato), asserisce di aver contato almeno 100 briganti negli anni 1585-1588, di cui 70 compaiono per la prima volta nei documenti del 1585. Un fenomeno antico, del quale il nostro autore – ma anche un esperto di brigantaggio come Alfio Cavoli – individua un inizio e una fine: dal XIII secolo al 24 giugno del 1900, quando in territorio mancianese fu ucciso Luciano Fioravanti .

Nonostante l’impegno per estirpare questo flagello – fatto di omicidi, estorsioni, rapine, stupri – da parte dei vari signori feudali, il brigantaggio non venne annientato, anche perché nel XVI secolo erano proprio i feudatari che “li proteggevano e in vari casi li utilizzavano per i loro spesso incoffessabili scopi; l’esempio più eclatante riguarda il più ben noto brigante dell’epoca: il nobile Alfonso Piccolomini, che varie volte trovò rifugio e scampo nella Contea di Pitigliano protetto dal nonno Niccolò IV e dallo zio Alessandro Orsini. Anche gli Sforza proteggevano i banditi…” nonostante la costruzione, nella seconda metà del ‘500, del palazzo fortificato della Sforzesca, edificato anche con l’obiettivo di reprimere il banditismo .
Così il brigantaggio ha attraversato i secoli, per arrivare al XIX, considerato una sorta di “età dell’oro” del fenomeno. D’altra parte, poco o nulla era cambiato rispetto a 300 anni prima: i luoghi erano gli stessi, con le paludi, le strade impercorribili, i boschi infiniti e impenetrabili. Non c’era più il feudalesimo, ma il latifondo, che dominava incontrastato, come la povertà e l’analfabetismo .
Tra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo, quando Dennis visitava l’Etruria, nell’alto viterbese, cioè a Gradoli, Latera e Valentano, si registrò una ripresa impressionante del fenomeno. Qui proliferarono criminali dai nomi poco rassicuranti: “Marcotullio”, “Mattaccino”, “Fumetta”, “Bustrenga”, “Marintacca”, che “operarono” di là e di qua del confine, disseminando ovunque violenza e terrore.
Fu in età post-unitaria che la Maremma tosco-laziale offrì le manifestazioni più clamorose del brigantaggio, alcune destinate a diventare leggenda. Nel 1868 la Prefettura di Grosseto avvisava i sindaci e i Reali Carabinieri di Sorano e Pitigliano della pericolosa latitanza dei banditi Giulio Gastellani (detto “Ragno”) e Leone Serra, zio del famigerato malvivente “Veleno” (al secolo Angelo Scalabrini che, come racconta Alfio Cavoli, fu ucciso dal parroco di Pianiano Vincenzo Danti, perché i due si contendevano la bella perpetua Fiorangela Codelli). Costoro erano sfuggiti alla cattura perché sostenuti da “manutengoli campagnoli”, mentre un certo “Gambalesta” (ossia Crispino Degl’Innocenti) era stato messo in gabbia dalle forze dell’ordine . Quattro anni dopo la Prefettura del capoluogo maremmano, rispondendo a un’ istanza degli amministratori soranesi per la tutela dell’ordine pubblico, comunicava di aver dato disposizioni al comandante l’Arma dei Carabinieri per effettuare un servizio di perlustrazione ed appostamento contro una banda di malfattori “con la forza disponibile, essendo per il momento impossibile di aumentare di uomini la stazione di Sorano”. La Prefettura informava che “ordini analoghi sono stati impartiti al Delegato di Pitigliano, come pure vanno prendendosi i necessari concerti col Sig. Sotto-Prefetto di Viterbo per un bene organizzato servizio da eseguire dalla Forza di questa Provincia in una a quella di Latera e comuni limitrofi”. Al sindaco di Sorano si raccomandava il controllo del proprio territorio con la Guardia Nazionale e i Reali CC, al fine di “impedire ai componenti la banda di trovare un asilo in codeste parti ”. Dalla lettura del documento si desume, oltre all’impegno delle istituzioni per contrastare il banditismo, i limiti dell’azione, dovuti alla mancanza di uomini disponibili e alla tutt’altro che improbabile connivenza della popolazione con i ricercati. Quest’ultimo è il fenomeno conosciuto come “manutengolismo”.
Intorno alla metà degli anni settanta dell’Ottocento le autorità dormivano sonni poco tranquilli, perché nelle circolari prefettizie comparvero i nomi di Tiburzi e Biagini: nel 1876, per ridare sicurezza al Mandamento di Pitigliano, il premio per la loro cattura fu elevato da 1.000 a 1.500 lire . Siamo nella seconda metà dell’Ottocento e fra Lazio e Toscana il brigantaggio esplose con particolare virulenza, dalle “imprese” del terribile Enrico Stoppa di Talamone (il più efferato e crudele, secondo Alfio Cavoli), per proseguire poi con le “gesta” di David Biscarini, Vincenzo Pastorini, Domenico Tiburzi, Domenico Biagini, Fortunato Ansuini, Damiano Menichetti, Settimio Menichetti, Antonio Ranucci, Sebastiano Menchiari, Settimio Albertini, Angelo Scalabrini, Luciano Fioravanti, Luigi Demetrio Bettinelli e molti altri. Sulle cause di un fenomeno così diffuso e radicato, ci atteniamo a quanto scritto da Cavoli, condividendone assolutamente l’analisi: “E l’uomo del quale ci occupiamo in questa sede è senza lavoro, vive nella più nera indigenza entro catapecchie dove la promisquità, il contagio, la mancanza di qualunque norma d’igiene, minano seriamente la sua salute. Muore di stenti e vede morire i suoi bambini e i suoi ragazzi di malattie endemiche, come a Manciano, dove uno studio da me portato a termine su documenti anagrafici riferiti al quinquennio 1860-1865 dette come risultato la morte di 377 minori, di cui 162 al di sotto di un anno, nel contesto di una popolazione di appena 4.500 abitanti. L’uomo di cui ci occupiamo […] si nutre di ghiande […] come i porci e […] anche d’erbe ributtanti e animali morti comecchessia […] il grado di alfabetizzazione nelle campagne è veramente zero e nei centri abitati di poco migliore […] è letteralmente oberato di tasse, alle quali, verso la fine degli anni Sessanta, si aggiungerà quella vergognosa, iniqua, impopolare sul macinato […]; non gode di diritti civili; gli è persino negato l’esercizio regolare della caccia (diritto esclusivo dei signori) che è costretto a praticare illegalmente, di frodo; negli abitati è imprigionato dai latifondi che lo circondano e che […] gli negano ogni possibilità di lavoro ”. Aggiungo che il servizio militare era un autentico calvario per molti giovani di leva della provincia grossetana, relegati in luoghi di aria malsana a guardia dei galeotti e riuniti in una compagnia detta “Maremmana”. Molti morivano per la malaria sotto le armi o subito dopo il ritorno alla vita civile .
Per tutte queste ragioni siamo convinti che non si possa non leggere il fenomeno del brigantaggio come una protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e secolari ingiustizie, legato all’esistenza delle grandi tenute maremmane e delle tensioni sociali che esplosero soprattutto fra Otto e Novecento.
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Il più noto fra quegli uomini di cui parla Cavoli fu Domenico Tiburzi di Cellere, detto“Domenichino” per il suo metro e sessanta centimetri scarsi di altezza, nato il 28 maggio 1836. Quando i carabinieri l’avevano sorpreso nel 1896 all’interno di un cascinale, sicuramente a seguito di delazione, Domenico Tiburzi aveva sessant’anni. Quasi la metà li aveva passati alla macchia, dormendo nelle caverne, nelle capanne di paglia dei pastori, nelle tombe etrusche. Un mito, per molti, che agitava anche il capo del governo Giovanni Giolitti: “E’ intollerabile che un bandito si imponga a un circondario intero. Prendetelo!” In Italia c’erano stati altri briganti famosi, ma le loro carriere si erano consumate nello spazio di tre, quattro, massimo una decina d’anni. Nessuno si era mai nemmeno avvicinato a un quarto di secolo di latitanza. Un record inverosimile, una giovinezza vissuta fra la macchia di Montauto e la Selva del Lamone, i suoi regni, la zona dove il pastore Domenico Tiburzi iniziò la sua vita di fuorilegge. Siamo ai margini della tenuta dei marchesi Guglielmi. E’ qui che i guardiani del marchese sorpresero “Domenichino” con una falce in mano. Furto d’erba: si rischiava una multa salata! “Le pecore hanno fame. Ho due figli. Lasciatemi stare”. Quelli, però, non vollero passarci sopra. Era il 24 ottobre del 1867, lui imbracciò la doppietta e uccise, a Cellere, Angelo Del Bono, il guardiano che lo aveva denunciato. Per quel primo omicidio lo condannarono a 18 anni di lavori forzati, ma, nella Salina di Corneto, Tiburzi rimase solo fino al 1872. Evase e iniziò la sua lunga latitanza, una scelta obbligata (quale altra poteva fare?), durante la quale uccise altre 7 persone, contadini e anche briganti: Domenico Cerasoli, Vincenzo Pastorini, Giuseppe Basili, Demetrio Bettinelli, Antonio Vestri, Giuseppe Pecorelli e Raffaele Gabrielli. Per altri due omicidi, quello di Serafino Merlo e di un non identificato capraio di Terracina, non è stata esclusa la responsabilità del “Re del Lamone”. Alla fine della sua lunga “attività”, Tiburzi aveva accumulato le seguenti condanne: due a morte, una all’ergastolo, 117 anni di lavori forzati e 20 di reclusione, per omicidio, estorsione, grassazione, ferimento e sequestro di persona.
Poi la fine alle Forane, presso l’abitazione in cui era emigrato come colono, nel 1890, Nazzareno Franci, originario di San Quirico di Sorano . Fu qui che, in una notte di pioggia del 1896, il bandito, con i riflessi offuscati dal vino e dall’età, cadde colpito dal piombo dei reali carabinieri diretti dal capitano Michele Giacheri.
Certo, Tiburzi fu spietato, ma alle rapine, ai sequestri di persona e ai ricatti, preferiva una sorta di patto di non aggressione con i ricchi locali – i latifondisti – che gli pagavano un obolo fisso, la “tassa sul brigantaggio”, per essere lasciati in pace e per godere, in qualche caso, della sua protezione. Con le spie e con chiunque potesse mettere in pericolo la sua libertà, compresi i compagni che non ubbidivano ai suoi ordini, non aveva però mezze misure. Qualcuno lo ha definito un “livellatore”, cioè uno che toglieva ai ricchi per ridistribuire fra i più bisognosi, fra i parenti e manutengoli, come fu accertato al processo di Viterbo.
Quando alle Forane i carabinieri lo colpirono, alle ore 3 della notte del 24 ottobre 1896, egli, si dice, fece in tempo a pronunciare: “Sono Tiburzi, non cercatemi più”. All’alba il cadavere venne esposto al pubblico, ai piedi del paese di Capalbio, all’interno del cui cimitero “Domenichino” fu immortalato dal fotografo Ulivi, per la prima e l’ultima volta, appoggiato a un troncone di colonna romana, con gli occhi tenuti aperti da due stecchini e la doppietta in mano. Tuttavia sulla morte del brigante sono state avanzate altre versioni: che a ucciderlo fosse stato il suo luogotenente Luciano Fioravanti, poi dileguatosi, o che si fosse suicidato per non cadere nelle mani delle forze dell’ordine. Quest’ultima interpretazioni fu in un certo senso suffragata dal comportamento del parroco di Capalbio, don Filippo che, si narra, non voleva seppellirlo nel cimitero, probabilmente perché gli era giunta la voce che il bandito si fosse tolto la vita: “Quell’ assassino in terra consacrata? Mai!”. La popolazione, invece, insisteva: “I morti sono morti”. Dentro e fuori, tira e molla, alla fine si giunse a un compromesso. E il corpo, si dice, finì per essere sistemato sotto il muro di cinta, mezzo dentro e mezzo fuori. Ma questa, in realtà, è una storia inventata dalla fantasia popolare. Più attendibile è la testimonianza dattiloscritta del 1950 di un certo Giovanni Dionisi, cittadino di Capalbio, che ha dichiarato quanto segue: “La mattina del 28 ottobre 1896 mi recavo per lavoro in località Casetta di Mariannina. Per accedervi ero costretto a transitare davanti al cimitero. Lì giunto mi sentii chiamare […] era Francesco Schedoni, ex carabiniere, addetto alla tumulazione dei cadaveri. Alcuni giorni prima era stato ucciso e colà ricoverato, il cadavere del brigante Domenico Tiburzi. Fui pregato dal detto Schedoni di aiutarlo a porre nella fossa il cadavere colà giacente. Così calammo nella fossa le spoglie mortali del bandito Tiburzi entro l’avello, ricoperto dai soli indumenti e senza cassa. Cade così la leggenda inverosimile di taluni male informati che Tiburzi sia stato tumulato con la testa entro il recinto consacrato e le gambe fuori ”.
Quattro anni dopo, il 24 giugno del 1900, il cerchio si chiuse: il brigante Luciano Fioravanti, luogotenente di Tiburzi e di vent’anni più giovane, originario di Acquapendente, venne ucciso “per mano di un amico traditore, Gaspero Mancini, che per derubarlo e assicurarsi l’ingente taglia posta sulla sua testa non si farà scrupolo di freddarlo con un colpo a bruciapelo mentre dorme […] nella macchia del podere Lascone. L’eroismo del Mancini, soppressore dell’ultimo brigante, conoscerà poi l’ombra della vergogna perché la Giunta Municipale di Manciano, di fronte a una richiesta di onoreficenza al valore civile, farà piena luce sull’atto ignobile compiuto dal pitiglianese nei confronti di Fioravanti, che, nonostante tutto, del suo carnefice era intimo amico ”.
Ma Fioravanti fu veramente l’ultimo brigante di Maremma? Il brigantaggio terminò in quel di Manciano nel giugno del ‘900? A leggere la Delibera n. 677 del 21 agosto 1899, della Giunta municipale di Sorano, sembrerebbe di no. In quella circostanza l’assessore anziano Mariano Boschi stigmatizzava il peggioramento delle condizioni dell’ordine pubblico, un “risveglio di malvivenza”, ricordando l’aggressione alla corriera postale per la via di Orvieto, il ricatto sul Dott. Palagano, medico condotto del comune e le “numerose estorsioni tentate sopra vari possidenti ”. Riteniamo che tutto questo non possa essere imputabile a Fioravanti, che a quella data stava nascosto fra Manciano e Pitigliano con una taglia che pendeva sulla sua testa, anche se ormai si trattava degli ultimi colpi di coda del fenomeno, di questa pagina sociale che si chiuse, come ha ricordato Alfio Cavoli, con il fallimento dell’occupazione delle terre del principe Corsini nel 1904 e, aggiungo, con l’emigrazione transoceanica, di cui furono protagonisti anche tanti disgraziati della nostra Maremma, almeno fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.
L’ultimo brigante di Maremma?
Quando lessi il suo nome, la partigiana sorrise ed esclamò: “Questo poi! Era un fuorilegge ricercato dai carabinieri, aggregato alla banda con Arancio. Una specie di brigante ”. Il nome che avevo letto a Mariella Gori era Mariotti Mariano Domenico, conosciuto come Mario Mariotti, “il tremendo” o “il forescito”, nato a Chiusi della Verna, in provincia di Arezzo, nel Casentino, il 4 maggio del 1905. Per ricostruirne la storia, ci affidiamo anche al libro del “Narratore Maremmano”, il mancianese Gileo Galli, dal titolo “Ospiti di Maremma. Le gesta del casentinese Mario Mariotti”, edito da Laurum. Il romanzo di Galli è basato su varie testimonianze, prima fra tutte quella di Maria Benita Gelli, a cui il libro è dedicato, compagna di Mariotti . Il motivo per cui questi visse un decennio da uccel di bosco in Maremma, almeno dal 1935 al giugno del 1944, non è del tutto chiaro: si vociferava che in gioventù fosse stato aggredito da alcuni fratelli, forse 3, di una sua amante, che gli aggressori pretendevano sposasse. Nello scontro, poiché Mariotti era dotato di notevole forza fisica, uno degli avversari perse la vita e il casentinese fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di Città della Pieve (PG), ma non attese il processo: con una fuga rocambolesca che gli costò lo stiramento di una gamba, riuscì ad allontanarsi e a nascondersi in un bosco. Aiutato da un amico guardiacaccia, raggiunse la Maremma, la zona di Vallerana, presso Capalbio, dove fu accolto e curato da contadini del luogo. Iniziò così la latitanza di quest’uomo che lo stesso Gileo Galli asserisce di aver conosciuto e che ha definito come amico del popolo e rispettoso del prossimo. Certo, come i briganti dell’Ottocento, aveva poco riguardo per le spie e per chi metteva a rischio la sua libertà, pretendeva i soldi dai ricchi signori, assicurando loro la vigilanza e la tranquillità sui latifondi. Fu anche accusato di delitti che non aveva commesso, come quelli che costarono la vita a Oreste Carrucola e Zelindo Zambernardi, compiuti invece dall’”Omo Selvatico”, cioè Leopoldo Fattori, classe 1873, originario di S. Michele in Teverina, un senza fissa dimora, ricercato, che viveva alla macchia nella zona del Pelagone di Manciano e che poi fu ucciso dalle forze dell’ordine. Nell’agosto del 1945 Mariotti venne assolto dal Tribunale di Grosseto dal mandato di cattura che gravava su di lui, per i meriti acquisiti durante la Resistenza e per aver collaborato con gli Alleati. In questa circostanza fu anche prosciolto dall’accusa, del tutto infondata e infamante, di essere lo sparatore del Pelagone e varie persone testimoniarono in suo favore.
Durante la sua lunga latitanza i Reali Carabinieri avevano cercato più volte di catturarlo, organizzando rastrellamenti nella bassa Maremma, fra Montauto e Capalbio. Furono tentativi destinati al fallimento: nessun contadino, nessun carbonaio, nessun cacciatore interrogato conosceva Mariotti, nessuno parlò. D’altra parte era difficilissimo catturare un uomo che conosceva i boschi e ogni anfratto, dalla Maremma grossetana al Circondario di Monterosi, come attestò il comandante partigiano Arancio Santi nella sua Relazione del 1946, che volle sottolineare il comportamento irreprensibile tenuto dal casentinese per la causa della libertà.
Poi l’8 settembre del 1943, la Resistenza, l’occasione per il riscatto. I boschi che erano stati rifugio dei briganti, divennero il nascondiglio dei “banditen”, dei partigiani di Arancio e Domenico Federici. Il “forescito” riuscì a entrare nella banda di Montauto il 10 gennaio del 1944 e fu impegato in servizio di collegamento e informazioni, passando più volte la linea del fronte, anche su incarico degli Alleati, affrontando da solo e con successo le pattuglie tedesche in cui si imbatteva e infine partecipando vittoriosamente alla Liberazione di Capalbio, nel giugno del 1944 .
Dopo la guerra il casentinese si trasferì con la compagna ventenne Maria Benita e i due loro bambini a Pescia Romana, a fare il “guardiano speciale” nella tenuta dei marchesi Guglielmi, ma il destino fu crudele con Mario Mariotti: qui finì i suoi giorni, il 26 luglio del 1946, per l’esplosione di un ordigno bellico che aveva rinvenuto nelle immediate vicinanze dell’abitazione e che forse intendeva disinnescare. Si vociferò molto su quell’incidente, vi furono commenti e supposizioni: qualcuno sospettò che l’ordigno fosse stato collocato deliberatamente per eliminare Mariotti e altri, si disse, gioirono per la fine tragica del “Tremendo”, di colui che, per molti che lo conobbero, fu l’ultimo brigante della Maremma tosco-laziale.

Franco Dominici