Fra Ottocento e Novecento la vita, per la stragrande maggioranza della gente, era particolarmente dura in Maremma, senza dimenticare che alcuni comuni grossetani, come quelli di Pitigliano e Sorano, con l’eccezione di Sovana, erano immuni dalla malaria. Per la loro peculiare conformazione geomorfologica, nei comuni di Sorano e Pitigliano si erano sviluppati attività e mestieri particolari. Così, ai tradizionali lavori agricoli e edili, si affiancavano quelli dell’operante a mazza, dell’esperto nell’uso del piccone per cavare il tufo e del vetturale che, con il carro trainato da buoi o da cavalli, trasportava ogni sorta di materiali per le strade impervie di quei tempi. A Sorano l’artigianato s’identificava prevalentemente con l’attività dei ceramisti, chiamati cocciai. Per il loro lavoro avevano bisogno della creta, estratta a Valle Castagneta e S. Giovanni, e della legna necessaria ad alimentare i forni. Legato al lavoro dei cocciai, vi era quello del taglio del bosco e dei vetturali per il trasporto delle materie prime. Un mestiere che richiedeva un’abilità particolare era quello del fornaciaio, specializzato nel preparare le fornaci dove il travertino, cotto a temperature elevatissime anche per tre giorni consecutivi, si trasformava in calce. Questa, indispensabile per i lavori di muratura, era uno dei pochi mezzi a disposizione della popolazione per le frequenti disinfestazioni delle case e delle vie dei centri abitati (Testimonianza di Bruno Dominici, classe 1924). In momenti di crisi rimaneva, come unica alternativa, il lavoro stagionale in Maremma, dove i braccianti “erano costretti a vivere in capanne e dormire su pagliericci, e il bisogno di assicurare alla famiglia un inverno meno duro li portava a non abbandonare i campi della bassa pianura, neppure durante i periodi di fienagione e di mietitura. A volte colpiti da febbri malariche non facevano ritorno a casa” (F. Detti, La valle dell’Albegna. Formazione ed evoluzione dei paesaggi storici, Pitigliano 1988, pag. 203).
Coloro che avevano con i Municipi un rapporto di lavoro stabile e duraturo vivevano, tranne contingenze eccezionali, un’esistenza meno precaria. Oltre ai medici, la categoria maggiormente remunerata, c’erano gli impiegati comunali, gli insegnanti, le levatrici, i poliziotti rurali, i custodi delle fonti, gli addetti ai lampioni per la pubblica illuminazione, i telegrafisti, i procaccia postali, i “temporatori” degli orologi pubblici e i becchini. Il regolatore del pubblico orologio di Sovana percepiva nel 1880 la somma annua di 40 lire, che poteva essere aumentata di 10 lire se provvedeva alle riparazioni e al mantenimento della macchina. Il becchino di San Giovanni, Castell’Ottieri e Montorio guadagnava uno stipendio annuo di 90 lire. Per capire il valore di queste cifre basta pensare che nelle tabelle compilate dal municipio di Sorano, relative alla conversione in denaro delle prestazioni in natura, una giornata di muratore era equiparata a 2 lire (Archivio del Comune di Sorano, Protocollo delle Deliberazioni del Consiglio, 5 aprile 1880 n. 80 e 30 ottobre 1880 n. 150). In tutti i paesi erano attive botteghe di fabbri, specializzati, fra l’altro, nel ferrare i somari, mezzo di locomozione principale dei “villani” e altrettanto numerosi erano quelle dei calzolai e dei falegnami: nella prima metà del Novecento soltanto a Pitigliano erano attive almeno una decina di falegnamerie e una dozzina di botteghe per la costruzione e riparazione delle calzature (Testimonianza di Ferrero Pizzinelli, classe 1921). Se il lavoro degli uomini era duro, quello delle donne non era certo da meno. Oltre ad accudire a una prole generalmente numerosa e a occuparsi di tutti i lavori domestici, fra i quali cuocere il pane nei forni rionali, le donne provvedevano all’approvigionamento dell’acqua presso le fonti e al bucato, che si faceva a mano nei lavatoi, molti dei quali si possono ancora ammirare nei centri storici dei nostri paesi. Molte donne praticavano il mestiere di sarta, altre di stiratrice, cioè stiravano i panni delle famiglie benestanti presso la propria abitazione, adoperando i ferri che si scaldavano inserendo al loro interno la brace dei focolari, l’unico mezzo di riscaldamento di cui tutte le case erano provviste. Tante ragazze erano poi impegnate nel lavoro al telaio, per il quale era necessaria la semina della canapa e la successiva macerazione che avveniva in alcune località, come Filetta nel comune di Sorano e il Pantano presso Pitigliano. Qui si trovavano “le caldane”, vasche di travertino costruite per l’immersione prolungata della canapa, operazione che precedeva altri interventi prima di ottenere il prodotto finito. Con la canapa lavorata al telaio, si producevano asciugamani, lenzuola e tovaglie, prodotti un po’ grezzi, ma particolarmenti resistenti, che costituivano il “corredo” delle ragazze che convolavano a nozze (Testimonianza di Velia Pietretti, classe 1926).
Franco Dominici