La corriera procedeva a ritmo sostenuto. Pochi i passeggeri. Alcuni in piedi, attorno all’autista, parlavano di semina e di granaglie. Lui rispondeva con motti salaci. Si chiamava Gerlando. Un afrore disgustoso di nafta e vino si esalava nell’abitacolo. Le curve si susseguivano incessanti. La corriera fremeva cigolava tossiva. La maestra, lieve di una gioventù appena sfiorata, gli occhi stillanti di nostalgia, spingeva lo sguardo fuori dal finestrino avida di scorgere, sulla linea dell’orizzonte, la sagoma bruna del Monte Argentario e forse il filo lucente del mare. Gerlando non seguiva sempre il tracciato della S.S. 74. Al bivio della Sgrilla, girava a sinistra per addentrarsi nella strada sterrata. Il mezzo andava fra strappi e muggiti. Disseminati sui colli e nella piana, fra i vecchi casolari, i nuovi poderi della riforma agraria Ente Maremma, mandavano bagliori lattiginosi. Attorno, campi arati e prati verdeggianti su cui le greggi facevano e disfacevano irregolari figure geometriche. Rare presenze umane. Voci lontane come di un richiamo che non attende risposta. Laceranti chicchirichì… Allo Sgrillozzo, un nuovo borgo perfetto nelle sue simmetrie come un’architettura del XVIII secolo, la corriera rientrava nella lucida linea di asfalto. Stretta contro lo schienale, una capace borsa di cuoio accanto a sé, la maestra osservava alcuni passeggeri scendere. Si fermavano un poco a parlottare, poi si abbracciavano chiudendo il cerchio del loro viaggio. L’autobus di Gerlando continuava il suo percorso come se si fosse liberato da un gran peso. La corsa si fermò a Marsiliana: quel luogo aspettava l’arrivo della maestra. Era il 16 novembre 1959. Lei scendeva senza incertezze. Un braccio raccoglieva gli arnesi del mestiere. Libri. Quaderni. L’altro sosteneva la capace borsa di cuoio rossiccio. Evidentemente pesante. Dinanzi ai suoi occhi il borgo di servizio. La chiesa armoniosa in pietra locale, si ergeva sulla sommità di una scalinata. Ad angolo, sotto un porticato, si aprivano i servizi essenziali. Infine la dispensa. Luogo di accoglienza e di aggregazione di nuovi coloni. Il caporeparto Bulleri, la moglie, il vice caporeparto Gaetano, il parroco andarono incontro alla maestra ossequiosi e beneauguranti. Senz’altro sorpresi della sua giovane età. Quella sera, alle 18,30, sarebbe stato ufficialmente aperto, nel nuovo edificio scolastico, il corso di scuola popolare per adulti analfabeti e semianalfabeti. Più tardi, sulla piazza, la maestra si sarebbe incontrata con il marito, impegnato, con la sua impresa, nella costruzione di alcuni poderi. Un affaticato motorino Guzzi 75, li avrebbe condotti, inerpicandosi su un viale di cipressi, al vecchio borgo. In una casupola, ai piedi del castello del principe Corsini, era stata concessa loro una stanzetta. I coinquilini erano Marino e Vittoria Romagnoli, i due figli, il vecchio nonno. Sulla loro tavola fu svelato il misterioso contenuto della borsa di cuoio aranciato: la cena degli sposi che era stata ben protetta dalle intemperanze della corriera di Gerlando. Erano le 18,30 di quel 16 novembre 1959. La maestra, lasciato il vecchio borgo, si preparava a incontrare i suoi alunni. La aspettavano disposti a semicerchio, attorno alla porta della scuola nuova, una quindicina di uomini più o meno giovani. Due fratelli erano giunti con un agile calesse. Gli altri a piedi, percorrendo sentieri e strade vicinali non ancora asfaltate che si intersecavano fra i poderi. Dal Cantiere, Quarto Albegna, Spinicci, La Marianaccia, Guinzani. Si facevano luce nella sera con torce a pile e talvolta con lampade a petrolio. Dapprima soli, poi via via unendo il loro cammino. La salutarono intimiditi. Un ineffabile odore di saponetta misto a tabacco sfiorava la soglia appena varcata dell’aula. La maestra si muoveva fra coloro che avevano trovato, per la prima volta o dopo molto tempo, posto sui banchi di scuola. Doveva essere quella una nuova tappa del viaggio nella Terra Promessa. La sua voce era chiara, armoniosa, suasiva. Perché anche la voce era corpo, espressione materiale e spirituale del suo desiderio di restituire a quegli uomini il tesoro del sapere di cui la STORIA li aveva derubati. Essi aspettavano che il vuoto, il filo spezzato della conoscenza fosse riaccordato attraverso lei: “la ragazza dalle guance di perla”. La lontananza dalla sede della scuola nei luoghi di origine, la sudditanza alla fatica più arrogante, avevano impedito loro la frequenza scolastica. Era quell’aula il luogo del riscatto. Lì e poi, sarebbe avvenuto molte volte, per molto tempo, la voce trascinante della maestra, il contenuto delle sue parole avrebbero fatto il miracolo, un intreccio di sapere e amore: “il potente enigma dell’ora di lezione”. La giovane insegnante affabulava, ma soprattutto raccoglieva le loro storie. Il tempo vissuto nei loro paesi sulla collina, nei loro borghi, nei poderi isolati non doveva essere considerato tempo “altro”. Si doveva consentire la coscienza della ricostruzione di un mondo in cui la cultura di appartenenza, le esperienze, i percorsi accidentati avrebbero dovuto spingere a creare una forma nuova dello spirito, non vuota di passato. La maestra osservava, sosteneva, incitava i suoi alunni a guidare la penna o il lapis. “E’ più facile spingere una pariglia di buoi a tirare l’aratro!”, affermava uno dei più anziani. Lei si commuoveva dei tentativi, gioiva delle conquiste. Le mani che trattenevano faticosamente la penna erano indurite dalle callosità, arrossate, solcate da graffi scuri. Le unghie, orlate indelebilmente dal nero della terra nei mesi della semina. E lei avrebbe voluto accarezzare con le sue mani bianche lisce, tenere quelle mani “vere”. Mani santificate dalla durezza della fatica quotidiana. Mani benedette da Dio che aveva aperto, per volontà di uomini lungimiranti e caparbi, i nuovi spazi della Riforma fondiaria. La maestra aveva la coscienza di essere partecipe di questo nuovo percorso della Storia. Si sentiva operante nel salto di qualità nel rapporto dell’uomo con l’uomo. Non più “homo homini lupus”. Nell’aula, nei poderi assegnati, non c’erano servi della gleba, ma proprietari, uomini consci della propria dignità e del loro futuro. Dinanzi a loro non feudatari, ma sullo stesso piano, altri uomini cui era stato affidato il compito di offrire messi, nuove conoscenze, una guida pluridirezionale. Nello stesso tempo si richiedeva rispetto al Patto Sociale. Sono passati 56 anni dal giorno in cui “la maestra dalle guance di rosa” si era presentata ai primi coloni della Marsiliana. Allora era più giovane di ciascuno dei suoi scolari. Oggi sono in campo i nuovi imprenditori agricoli. La terza generazione degli ex assegnatari dell’Ente Maremma. Sono loro a offrire la competenza, la capacità gestionale delle colture, l’intraprendenza per aprirsi a spazi sempre più grandi. L’Expo lo ha testimoniato. Loro è il peso di un lavoro in cui il rapporto con la Sorte e ritmato dal concedere e dal negare la grazia, l’amicizia, la benevolenza. Il continuare a piegarsi sulla terra come i padri e i padri dei padri è stato sempre un gesto eroico, ma talvolta di più come è accaduto nell’alluvione del novembre 2012. Quella che trasformò le fertili terre della Marsiliana in un tenebroso mare di fango. “Tutto viene accettato: è il percorso continuo dell’esistenza. Qui fra gli esseri umani funziona così!”. Questo è il pensiero di Michele Detti, di Spinicci, che ha appena ricevuto una targa per il migliore giovane imprenditore. Venti ettari di terreno, la dote assegnatagli dalla famiglia. Ma non può essere la terra un bene da custodire con lo straniamento di un ammiratore. Quel nucleo di materia vitale deve espandersi, moltiplicarsi, accogliere diversificando culture, impegnando mezzi idonei. Ora sono 60 gli ettari che coltiva Michele: quelli di proprietà e quelli presi in affitto. Pomodori e ortaggi. Migliaia e migliaia i solchi di terra penetrati con l’ostinata perseveranza dell’agricoltore assistita dalla certezza di poter dire al mondo: “coltivare la terra è abitare l’anima.”.
Stella Morucci