I libri Effigi su Manciano, Pitigliano, Sorano.

Beit Lahia, Striscia di Gaza, 13 agosto 2014

Simone Camilli

Sono le 6.25.

Fuori dall’appartamento c’è un silenzio irreale.

E`il primo giorno dopo settimane di sirene, esplosioni, urla, allarmi.

L’inferno dell’occupazione e del bombardamento di Gaza.

L’operazione “Margine protettivo” iniziata a luglio rende l’assedio una sanguinosa resistenza alla quotidianità della morte, della fame e dell’assenza di ogni bene di prima necessità.

Questa terra martoriata la conosco abbastanza.

Non è la prima volta che da reporter indipendente mi trovo a testimoniare l’irreale e parlo di ciò che non ha a che vedere con la guerra solamente.

Le guerre iniziano e poi finiscono. Le combattono gli eserciti.

Alle guerre seguono dopoguerre, e magari ricostruzioni che sono un gran business per pochi, ma almeno sono la parvenza di una nuova vita..

Della Striscia invece si può solo raccontare la quotidianità infinita dell’occupazione che dura da generazioni.

La ricostruzione impossibile di un territorio che è stato convertito da Israele, con la complicità del mondo intero,  nella più grande galera a cielo aperto del mondo.

E in galera in questo caso ci finisce chi ha la sfortuna o l’orgoglio di nascere in questo fazzoletto di terra ed essere denominato quindi Gazawi.

Sono normali riflessioni per chi come me è solo di passaggio.

Per chi è convinto come me che provare a informare sia un primo passo per dare voce agli ultimi della terra, ai dannati, agli innocenti.

A breve tornerò a casa, nel mondo normale, nel mondo complice che pensa a tutt’altro.

Forse il mio lavoro potrà  aggiungersi a quei granelli di sabbia che provano ad inceppare questo meccanismo di morte.

Forse no.

Forse è un rimorso di coscienza, forse solamente un lavoro come un altro però svolto con onestà.

Hatem ieri sera mi  ha ricordato la sveglia presto.

Ci sarà almeno un giorno di tregua e può essere un giorno adatto per andare a fare delle riprese in uno dei tanti depositi di bombe accumulate nella zona di Beit Lahia non lontano dalla stazione di polizia.

Siamo convinti entrambi che possa essere un documento importante per raccontare la quotidianità che rende le operazioni militari infinite nel tempo,  lasciando sul campo centinaia di bombe inesplose.

Le vittime di questi ordigni sono numerosissime, primi fra tutti gli artificieri che hanno la responsabilità di neutralizzarli per il bene della popolazione intera.

Mi lavo i denti, sciacquo la faccia velocemente, un caffè volante e, telecamera alla mano, corro giù in strada dove aspettano il mio collega assieme ad  Ali e Habou,  due interpreti palestinesi che ci seguono durante le uscite.

Abbiamo da fare un paio d’ore di strada per arrivare nel luogo prefissato assieme alla polizia locale ed è importante arrivare in tempo e terminare rapidamente il lavoro.

La tregua è un momento estremamente delicato e sulla sua durata non si può fare affidamento.

In macchina c’è silenzio, lo stesso che si respira al di fuori del veicolo.

Qualcuno in strada, poca gente a dire la verità, nel tentativo di ricominciare a vivere una routine tanto vitale quanto impensabile.

La gran parte degli edifici che incontriamo sul nostro cammino risentono dei pesanti bombardamenti dell’IDF dei giorni precedenti.

Sarebbe una follia solo pensare di ricostruire visto il perenne stato di assedio del territorio e l’impietosa cadenza delle operazioni militari nonché criminali dello stato d’Israele.

Stiamo entrando a Beit Lahia.

Lahia è una parola di origine siriana che significa deserto.

Tutt’attorno alla città infatti ci sono distese di dune sabbiose ma la particolarità di questo luogo è la presenza di acqua e di piantagioni di agrumi ovunque che rendono questo luogo una specie di oasi.

La Palestina regala questi miracoli, sembra quasi di assistere al parallelismo fra la resistenza di una popolazione all’occupazione militare e allo stesso tempo di una terra di fronte alle difficoltà climatiche.

Come a ricordare che si resiste a tutto ed esistere si converte nella prima forma di ribellione all’oppressione.

Alì si ferma di colpo accanto ad un coraggioso banchetto improvvisato per comprare un sacchetto di frutta per tutta la compagnia e si continua a guidare verso il luogo indicato dal gps.

Il navigatore indica 4 km e le case in questa zona stanno iniziando a diventare più rade.

Si nota una differente densità di popolazione.

Abu nel frattempo continua in inglese a raccontare stralci della storia del luogo ma non riesce a catturare l’attenzione completa della squadra.

Si sta avvicinando il luogo prefissato e si è insinuata in tutti una tensione naturale, un presentimento strano che fino a quel momento non era stato avvertito.

Siamo arrivati.

Ad attenderci ci sono una decina di persone.

Probabilmente tutti poliziotti palestinesi, molti dei quali artificieri.

Alì e Abu comunicano  loro la volontà di filmare l’importanza del lavoro di disinnesco degli ordigni inesplosi e loro accettano di buon grado anche se in realtà erano già stati avvertiti della presenza quel giorno dell’Associated Press.

Diverse testimonianze tra cui quella di Vittorio Arrigoni ricordano che fra i primi obiettivi delle operazioni militari ci sono medici, infermieri, ambulanze e soprattutto artificieri, professionisti indispensabili in questo contesto.

Uno di loro indica con l’indice un punto preciso a qualche centinaio di metri.

Segue lo sguardo stupito di noi tutti.

È un campo da calcio.

Un luogo di sport, divertimento e svago, una volta…forse.

Ammassati proprio nel mezzo dell’area di rigore ci sono diversi missili dell’aviazione israeliana.

Anche questa purtroppo è una di quelle macabre scene sulle quali il mondo intero ha deciso di chiudere gli occhi.

Inizio a sistemare il materiale, la telecamera e il cavalletto, mentre guardo con sospetto quegli strumenti di morte,  intrusi in quel luogo.

Sono a distanza di sicurezza ma non esiste sicurezza in quell’inferno anche se questa giornata di calma irreale può trarre in inganno.

Scatto qualche foto intorno.

Di colpo si sente un grido. Anzi diversi.

Ripete sempre la stessa parola , la parola che conosco di più in arabo. : “yalla, yalla”.

È uno dei poliziotti che corre verso un gruppo di bambini, quattro, che con un pallone totalmente sgonfio e rattoppato stanno giocando nell’area opposta del campo di calcio.

A turno uno di loro sta in porta e ogni volta che riesce a bloccare il pallone con le mani costringe chi ha tirato a cedergli il posto.

Così pare almeno. Queste regole mi ricordano un gioco che facevo da piccolo in paese per cui mi viene automatico pensare che in ogni geografia le regole del calcio di strada siano le stesse.

Forse cambia  solamente la qualità del pallone con il quale giocare.

I bambini ignorano totalmente l’ordine di abbandonare l’area da parte dell’agente.

Sembra proprio che lo facciano appositamente, con consapevolezza e con una meravigliosa espressione di sfida.

Il campo è il loro e se ne vadano pure tutti a quel paese.

La scena adesso è diventata più animata.

Un altro poliziotto è corso verso la porta con l’intento di sottrarre il pallone a quei disobbedienti.

Punto la telecamera allargando l’obiettivo per rendere immortale quella piccola commedia.

Il più grande del gruppo inizia a correre con la palla in mano. Il poliziotto appresso, è tutto rosso e sudato. Fa un gran caldo a quest’ora.

Gli altri tre bimbi ridono indicando il povero inseguitore stremato dalla fatica.

Sembrano intonare un “ nanananana” , o qualcosa di simile, altra espressione di scherno che nella mia mente  compare in tutte le categorie di bimbi nel mondo come le regole del calcio  di strada.

Ormai tutti ridono in quella situazione paradossale.

Rido anche io con la telecamera sulla spalla, ride la troupe, ride la squadra di artificieri, gli interpreti.

Alla fine ride anche il goffo poliziotto sudato che, poveraccio,  si sta preoccupando solamente per l’incolumità di quelle creature.

Intanto la camera continua a filmare.

Sta testimoniando la vita, la resistenza, l’allegria di quell’attimo.

Non ricordo  di preciso chi abbia  pronunciato questa frase ma mi torna alla mente d’improvviso:

“un sorriso è un sogno che ce  l’ha fatta”.

E inizio a pensare…ai sogni, alle speranze e soprattutto a quanta vita c’è in quella   terra martoriata chiamata Palestina.

Targa SImone Camilli

Il 13 agosto del 2014 il cineoperatore dell’Associated Press Simone Camilli assieme ad Abu Afash e a 4 poliziotti palestinesi vengono uccisi dalla deflagrazione improvvisa di un ordigno israeliano nei pressi di Beit Lahia. Questo racconto prende spunto da quella storia anche se contiene elementi di fantasia. È un omaggio a tutte le giornaliste e i giornalisti, come Simone,  assassinat* durante le operazioni militari dell’ esercito israeliano, a tutte le vittime dell’operazione “margine protettivo”  del 2014 e a tutte le centinaia di migliaia di vittime dell’occupazione. Ma soprattutto è un omaggio alla vita e all’eroica sopravvivenza del popolo palestinese.

Alessandro Meo (Sante)

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