Con diciotto voti a favore e uno contrario, nel tardo pomeriggio del 25 novembre 1922, era nominato sindaco della prima amministrazione fascista l’avvocato Giuseppe Bruscalupi fu Lorenzo, che nel 1927 ricoprì la carica di podestà della “Piccola Gerusalemme”. Bruscalupi faceva parte della cordata Aldi Mai-Ciacci-Cavallari, cui si opponeva la controparte guidata dal colonnello Berliri Zoppi, presidente dell’Associazione Combattenti, mai iscritto al fascismo. Era passato più di un anno dalla fondazione del fascio di Pitigliano, avvenuta il 16 ottobre del 1921 per impulso di Arturo Romboli, inviato dai vertici del fascismo fiorentino per espugnare la cittadina e gli altri comuni della val di Fiora. Da un prospetto della Tenenza dei RR.CC. di Pitigliano, inviato al prefetto l’11 ottobre del 1922, il fascio di Pitigliano, istituito un anno prima, con segretario politico Romboli, era formato da “capi (che) appartenevano al partito monarchico-costituzionale. No armi e giornali propri. Nessuno dei soci era in attesa di servizio militare. Non avevano contatto con altri partiti, facevano attiva opera di pacificazione e tenevano delle riunioni private. Avevano pagato 5£ ciascuno per la tessera e il distintivo”. (Archivio di Stato di Grosseto, Busta 501, Questura, Prospetto della Tenenza CC.RR. di Pitigliano inviato al Prefetto l’11/10/1922). A quella data, effettivamente, i fascisti avevano in mano la città del tufo e si apprestavano a conquistare il municipio con l’elezione, appunto, di Bruscalupi.
Un anno prima, però, la situazione era ben diversa, perché a Pitigliano i socialisti, che avevano vinto le elezioni nel settembre del 1920, resistevano alle soverchierie del nemico. L’amministrazione, presieduta dal socialista Pietro Bocini, non aveva subìto particolari minacce, tali da menomarne la stabilità, ma negli ultimi mesi del 1921 lo scenario era profondamente mutato, specie dopo le aggressioni e gli omicidi fascisti a Grosseto, Orbetello e Roccastrada, fra giugno e luglio di quell’anno. La resistenza di Pitigliano fu stroncata dall’arrivo di Arturo Romboli di Pontassieve e di altri squadristi forestieri che, in sodalizio con quelli locali, fondarono alcune squadre (“Terribile”, “Folgor”, “Ivo Saletti”) e con la connivenza delle forze dell’ordine, iniziarono le aggressioni ai danni degli avversari, con scontri che fra l’altro portarono anche al grave ferimento di un carabiniere, come si evince da una lettera della sezione fascista di Sorano del 1927. Ecco il testo di un telegramma “Riservatissimo” del primo novembre 1921, conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato: “Continuano lamentarsi persistenti manifestazioni di violenza e turbolenza fazioni politiche in codesta provincia. Si riferisce, fra l’altro, che 23 ottobre scorso a Pitigliano, soci cooperativa agricola Produzione e Lavoro all’uscita dalla propria sede sarebbero stati aggrediti dai fascisti spalleggiati dai carabinieri, con spari di armi e violenze di ogni genere anche a danno di cittadini estranei partiti locali. Gravi minacce sarebbero state rivolte dai fascisti al sindaco Bocini con diffida sottoscrivere dichiarazione implicante sua responsabilità di ogni avvenimento. Segnalasi anche sequestro e minacce mano armata commessi 25 stesso mese a danno tale Italo Puri […] e successive aggressioni che sarebbero state perpetrate contro abitazioni maggiorenti avversari, particolarmente contro case Gervasi e Dinelli”. (Archivio Centrale dello Stato, Dipartimento Generale di Pubblica Sicurezza, telegramma “Riservatissimo” del primo novembre 1921 del capo gabinetto della Prefettura di Grossero Savini). Fu questa la circostanza della violazione del domicilio di Ercole Gervasi, che avvenne con tale violenza da “segnare per sempre la psiche della sua primogenita Assuntina, che assistette agli eventi”, come ha testimoniato Luciana Gervasi, nipote di Ercole, poi sindaco di Pitigliano nel giugno del 1944, subito dopo la Liberazione ad opera dei partigiani. Adolfo Giuseppe Dinelli, che presiedeva la Lega proletaria dei braccianti, un altro dei principali esponenti socialisti, fu costretto a emigrare negli Stati Uniti. Era in procinto di ritornare in patria, quando sparì misteriosamente e non si seppe più nulla di lui (Dominici-Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020, pag. 79). Da documenti archivistici, l’amministrazione socialista rimase in vita fino al giugno del 1922, seguita dalla nomina di un commissario prefettizio, poi dal trionfo elettorale fascista che, come si è visto, avvenne con l’elezione dell’avvocato Bruscalupi. La vittoria elettorale non mise fine alle prevaricazioni: i fatti successivi all’elezione di Bruscalupi smentiscono l’informativa dell’ottobre del 1922 dei RR.CC. circa l’opera di pacificazione del fascio. Infatti, come a suggellarne il trionfo, il fascismo volle la sua vittima, la sua vendetta: la vita di un contadino, un “sovversivo” che non era stato “addomesticato”. Il 12 dicembre 1922 nella piazza di Pitigliano fu aggredito e massacrato, sotto gli occhi del figlio Filippo di soli sei anni, Oreste Celata, detto “il Moro”. A dirigere il manipolo di delinquenti, secondo quanto tramandato dalla famiglia, sarebbe stato il rampollo di una delle più importanti famiglie di proprietari terrieri locali. Oreste Celata, nato il 24 marzo 1877 a San Martino sul Fiora (Sorano) era figlio di Filippo e di Giacinta Martini. Si era sposato il 23 ottobre del 1898 con Maria Scalabrelli, con la quale, negli anni venti del Novecento, viveva a Pitigliano, in un vicolo di via Zuccarelli. Dopo la vile aggressione, Celata fu ricoverato all’ospedale di Orbetello, ma non ci fu nulla da fare: l’atto di morte n. 72 del 13 dicembre 1922, firmato dall’ufficiale di stato civile Danesi, testimonia della morte del bracciante soranese, avvenuta alle sette e trenta dello stesso giorno (Comune di Sorano, Ufficio dello Stato Civile, Estratto per riassunto del registro degli atti di nascita anno 1977 N. 5 P. 1 S. A V. 2, Celata Oreste; Comune di Orbetello, Atti di morte, n. 72 13 dicembre 1922, Celata Oreste).
Sulla drammatica, sconcertante vicenda di Oreste, massacrato nella pubblica piazza di Pitigliano sotto gli occhi del figlio, riportiamo la testimonianza di Giandomenico Celata, figlio di Filippo, docente universitario presso Roma 3:
“Dal racconto di mio padre Filippo Celata, relativo alla morte di suo padre Oreste Celata.
Oreste Celata attivo militante socialista (come vedremo), fu bastonato a sangue nel 1922 sulla piazza di Pitigliano davanti agli occhi di mio padre Filippo, che allora aveva 6 anni, da un manipolo di fascisti.
Oreste fu trasportato all’ospedale di Orbetello moribondo, dove morì e seppellito non sappiamo dove. Credo in una fossa comune nel cimitero di Orbetello, che fu comunque sventrato dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale.
La cosa fu messa a tacere dal regime “gratificando” mia nonna, completamente invalida, di una pensione di guerra. Questo fatto, che comportava la sopravvivenza economica di mia nonna, creò una sorta di omertà sulla vicenda, nella famiglia stessa.
La cosa si giustifica con le condizioni economiche della famiglia che erano di sussistenza. Da una breve ricognizione, infatti, nessuno dei miei cugini Celata ne ebbe notizia dai loro padri, fratelli di Filippo Celata. Mio padre stesso era molto riservato sulla cosa, infatti me la raccontò in uno sprazzo di memoria e commozione quando io ero già grande.
Una sola conferma l’ho avuta recentemente da mio cugino Pietro Biagiotti, figlio di Oenia Celata, sorella di mio padre.
Informandolo pochi giorni fa di questa nostra ricerca mi ha detto che sua madre, che ha curato per tutta la vita mia nonna completamente invalida, gli disse che il nonno era morto nel 1922 (e non in guerra come dichiarava la pensione) ad Orbetello. Senza aggiungere altro. Questo conferma la memoria di mio padre.
Oreste Celata era un militante socialista? Credo proprio di sì. Mio padre, oltre alla vicenda della aggressione a morte di suo padre Oreste, mi raccontò di come lo accompagnava, lui molto piccolo, nei comizi che faceva nelle osterie e di come, inseguiti dai fascisti, si andavano a nascondere nelle ripe del Fiora. La fuga, ricordava mio padre, a bordo di un cavallo (secondo me di un mulo, date le condizioni della famiglia).
Padre ucciso, madre invalida, mio padre sei anni, praticamente non credo prese la licenza elementare. Credo che andò subito a lavorare in falegnameria e poi in aeronautica (un’altra gratifica del regime?) sull’altipiano di Asiago, dove partecipava alla costruzione degli alianti (di questo ho le foto). Fu allontanato da questa posizione per motivi politici e trasferito in fanteria a Livorno dove ebbe altre vicende”.
Questo di Celata non fu, in realtà, l’unico omicidio commesso a Pitigliano durante il ventennio: la seconda vittima della violenza fascista fu Dante Franceschi, bracciante, nato il primo agosto del 1897 e assassinato il 29 settembre del 1935. Tracce di quest’omicidio sono state recuperate dal sottoscritto nei documenti del Comitato di Liberazione di Manciano, cioè negli interrogatori ai fascisti condotti nel 1944 dal brigadiere a cavallo e partigiano Luigi Zacchino, l’indimenticabile comandante della caserma dei RR.CC. della “Spia della Maremma”.
Franco Dominici