La zona di S. Leopoldo è situata nella campagna maremmana, non molto lontana da Marina di Grosseto, vicinissima alla località Il Cristo, a sua volta distante dalla città capoluogo 14 chilometri. S. Leopoldo è sull’argine del fosso Tanàro. Qui, nella primavera del 1944, si rifugiarono alcune famiglie dei dintorni e di Marina, per sfuggire alla guerra che ormai stava volgendo al termine. Fu un’illusione per quei civili inermi, perché su di loro si abbatté la furia cieca dei tedeschi nella loro ritirata aggressiva, nei giorni in cui uccidevano facilmente tutti quelli che erano considerati nemici, veri o presunti. La strage di S. Leopoldo del 12 giugno 1944 fu preceduta da rastrellamenti nella zona di Castiglione della Pescaia, nel tentativo di sgominare la locale banda partigiana, collegata a quella di Tirli e poi inserita nel Raggruppamento “Monte Amiata” settore C. Già da aprile-maggio del 1944 il Comando tedesco della 92^ Divisione di fanteria aveva ordinato di sgomberare la zona costiera, dove erano frequenti i bombardamenti e si temeva lo sbarco alleato. Lo sfollamento ci fu, di migliaia di persone, verso le zone interne, per l’esecuzione del quale i tedeschi affidarono l’incarico alla Guardia nazionale repubblicana, che lo portò a compimento alla fine di maggio con l’impiego di 100 uomini della Compagnia di Ordine Pubblico e di reparti territoriali[1].
I tedeschi, inoltre, non solo pretesero l’evacuazione costiera ma, per impedire o complicare qualsiasi sbarco alleato, minarono anche delle località litoranee. Fu il caso di Talamone, bombardato dagli alleati il 13 marzo e il 28 aprile 1944, dove i guastatori della Wermacht iniziarono la demolizione il 13 maggio, facendo saltare in aria la caserma dei Reali carabinieri, le poste, il telegrafo, la canonica, l’asilo infantile e numerose case private[2]. La strage di S. Leopoldo, come si è detto, va inserita nel contesto della ritirata aggressiva tedesca e, per quanto riguarda la provincia di Grosseto in particolare, con quanto era avvenuto un paio di giorni prima a sud di essa. Infatti, era stato liberato Capalbio con uno scontro che vide impegnati dapprima i partigiani, poi gli americani della 36° Divisione di fanteria “Texas”, che sconfissero un reparto della 162 Divisione di fanteria turcomanna. A Pitigliano, con un abile colpo di mano, il Comandante Pietro Casciani e i suoi uomini del “Reparto Lupi” conquistarono il paese arrestando i tedeschi presenti, sbaragliandone una quarantina che provenivano da Manciano e respingendo un contrattacco della 90° Panzergrenadier proveniente da nord, dalla parte di Sorano. Tutto ciò avvenne fra il 10 e l’11 giugno del 1944. I tedeschi furono subito informati di quanto accaduto e ci sembra impossibile, ad esempio, non collegare la strage di Roccalbegna, che costò la vita a 6 civili, avvenuta l’11 giugno nel primo pomeriggio, con la Liberazione di Capalbio e di Pitigliano. Peraltro, a Roccalbegna, la strage non fu solo compiuta dagli uomini della 16° Divisione Panzergrenadier SS, ma anche da altri del 42° Reggimento di montagna e della 165° Divisione turcomanna, la stessa che era stata sconfitta a Capalbio. Lo stesso giorno in cui Manciano era raggiunto, liberato dagli americani, e i partigiani del Tenente Antonio Lucchini entravano trionfanti in paese, dopo aver conquistato Montemerano e Saturnia, il 12 giugno, appunto, a San Leopoldo esplose la violenza tedesca. Come dimostrano gli esempi riportati e lo stesso rastrellamento anti-partigiano che la precedette a Castiglione della Pescaia, essa trova le sue motivazioni nella violenta ritirata germanica e non, come qualcuno ancora scrive o asserisce, riferendosi a queste stragi o a quella più efferata dei minatori di Castelnuovo Val di Cecina e Niccioleta, al bando repubblichino firmato da Almirante del maggio del 1944, rivolto agli sbandati.
Il 12 giugno 1944 due soldati tedeschi e un ufficiale, probabilmente genieri (a sud di Grosseto erano entrate in azione delle unità raccogliticce chiamate Kampfgruppe, guastatori disposti a tutto pur di ritardare l’avanzata alleata) raggiunsero il ponte sul Fiumara di San Leopoldo, un canale costruito nel 1883, opera realizzata dai Lorena per consentire la bonifica, la cui funzione era quella di drenare le acque del fiume Ombrone. I militari si presentarono al casello del Genio civile custodito da Fortunato Falzini, lì assieme alla famiglia e a vari sfollati che ospitava. I tedeschi erano giunti per distruggere il ponte (cosa che fecero) e allagare così la zona, che in realtà era già inondata. Essi temevano uno sbarco nella zona di Marina di Grosseto e per questo, come si è già visto per Talamone, avevano minato il litorale e sommerso il territorio per rallentare eventuali sbarchi e avanzate nemiche. Perciò ordinarono all’uomo di andarsene. Falzini mostrò loro un salvacondotto firmato da un ufficiale tedesco, un permesso che lo autorizzava a restare per verificare il livello delle acque. “C’era l’acqua alta anche tre metri, si camminava solo sugli argini”, ricorda Alberto Madioni, 86 anni, fratello di Roma, una delle vittime della strage. “I nazisti chiesero a Falzini di mostrare il permesso per stare sul posto, rilasciato dagli stessi tedeschi. Il documento era regolare, ma non bastò. Gli spararono a bruciapelo, uccidendolo all’istante[3]”. Subito dopo furono uccisi Luigi e Livio Botarelli, padre e figlio, che abitavano vicino al casello, accorsi al rumore degli spari. Questa la versione di Emilio Botarelli, classe 1918, che sopravvisse all’eccidio: “Arrivarono due tedeschi. Le donne dissero a noi ragazzi di non farci vedere, Per prudenza, non si sa mai. Chiesero chi era il capofamiglia. Mio zio Luigi disse: sono io e gli spararono di colpo. Aveva la pipa in bocca; gli schizzò via. Io corsi a rifugiarmi sotto il letto, al piano di sopra[4]”. Nel frattempo altri sfollati cercarono di fuggire lungo l’argine: Olga e Giancarlo Lari, madre e figlio, colpiti mentre correvano lungo l’argine, morirono subito. Fu ferita Roma Madioni, che perse la vita qualche giorno dopo: “Mia sorella Roma scappò su per l’argine – ricorda Madioni – la rincorsero e le tirarono una bomba a mano[5]”. Alcuni cercano rifugio dentro una cisterna dell’acqua e i tedeschi vi gettano delle bombe a mano che ferirono Armando Lari. La notizia della strage giunse a Grosseto, dove Alberto Madioni e altri parenti lì rifugiati accorsero trovando Livio Botarelli, Roma Madioni e Armando Lari feriti. Secondo la testimonianza di Madioni i tre furono portati a Grosseto, al ricovero dei vecchi, con un carretto preso in prestito ma Livio e Roma non sopravvissero.
Per Gianluca Fulvetti, “l’elemento scatenante la violenza è l’eccessivo numero di persone riparate nel casello: nella Toscana del 1944 anche un gesto di solidarietà come l’accoglienza degli sfollati sarà più di una volta motivo sufficiente per essere uccisi[6]”. Secondo quanto ricorda Alberto Madioni, nel citato articolo de Il Tirreno, le responsabilità sarebbero anche di alcuni fascisti, che avrebbero riferito ai tedeschi la presenza di partigiani e militari sbandati a S. Leopoldo. “I familiari delle vittime accusarono di complicità alcuni fascisti locali”, scrive Marco Grilli, che ha curato in maniera approfondita la ricerca per l’Atlante delle stragi nazifasciste riguardo alla provincia di Grosseto. “Come si evince dalla lettera inviata dal prefetto di Grosseto Amato Mati al Ministero dell’Interno (23 luglio 1945), sorsero sospetti di partecipazione alla strage a carico di otto persone, ma l’impossibilità di avvalorare gli indizi con elementi concreti condusse al loro proscioglimento in istruttoria”. Come in altre stragi o singole uccisioni avvenute in quei giorni, dove vari testimoni asserirono addirittura della presenza di fascisti con i tedeschi, si finì con un nulla di fatto o con assoluzioni successive.
Oltre ai morti e al terrore, la strage di S. Leopoldo lasciò poco o nulla dietro di sé, né un processo, né l’individuazione dei colpevoli: gli assassini furono un reparto tedesco non precisato e la strage è rimasta impunita. Due documenti rinvenuti riferiscono dell’accaduto: quello del primo prefetto “politico”, lo scansanese Amato Mati e una relazione del sindaco Lio Lenzi.
Dopo la strage accadde persino un furto presso l’abitazione della famiglia Botarelli: alle sorelle Botarelli, nipoti di Luigi, fu rubato il corredo e tre persone vennero rinviate a giudizio, fra cui un milite della classe 1914 iscritto al PNF dal 24 maggio 1936 e membro della 98^ Legione MVSN Camicie Nere dal 1940.
Note
[1] G. Betti, F. Dominici, Banda Armata Maremmana, Effigi, Arcidosso 2014, pp.115 e 116.
[2] Cronologia della Resistenza in provincia di Grosseto, a cura di Nicla Capitini Maccabruni e Giulietto Betti, alle date del 13 marzo, 28 aprile e 13 maggio 1944.
[3] Il Tirreno, 12 giugno 2013
[4] Ibidem
[5] Ibidem
[6] Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1944), CCarocci, Roma 2009, pp. 95 e 96.